Basta una canzone per fare di un album un capolavoro?
Forse no, forse si.
Non ne conoscevo la storia, ma pare che nel 2012 se ne parlò un bel po' e fece abbastanza scalpore.
Oggi la storia de "La Giraffa di Imola" me la ha raccontata per la prima volta Vinicio Capossela, e mi sono commosso, per la bellezza e tristezza della storia, per come è raccontata e per come è musicata.
Una meraviglia, non ho altro da dire, solo l'ascolto può portare un giusto giudizio.
Basta una canzone per fare di un album un capolavoro?
Forse no, forse si.
Due probabilmente si.
Un selfie scattato con in primo piano il faccione follemente gitano di Capossela e sullo sfondo la follia del mondo moderno, fatta di tweet, like, fake news, ecc, ecc.
Immaginate una "Moskavalza", con i suoi ritmi tecno-folli, su scala mondiale, questa è "Peste".
Bastano due canzoni per fare di un album un capolavoro?
Forse no, forse si.
Tre sicuramente si.
Il più geniale omaggio a Fabrizio De Andrè (ed in particolare alla sua "Il Testamento") che si potesse immaginare, una canzone sul testamento di un maiale e su tutti i lasciti ereditari lasciati agli uomini, meritevoli e meno meritevoli.
Lungo tutto l'album storie, reali ed immaginarie, di uomini (con tratti animali) ed animali (con tratti umani), a cominciare da quella del proto-bue dipinto nelle grotte di Lascaux da un proto-uomo.
Un album completamente folle, non solo e non soltanto per i "soliti" pezzi folli alla Capossela, ma anche e sopratutto per come le canzoni (della durata media di cinque minuti, quindi "impegnative") sono raggruppate al suo interno, senza nessuna concessione al miglioramento della sua fruibilità.
Un inizio prettamente sfavillante, percussivo, ritmico.
Un finale (per ben tre canzoni di seguito) mesto, lirico, soffuso.
Un grande album, una summa di quanto di meglio Capossela ha saputo fare nei suoi album a partire da "Il ballo di San Vito".
Un capolavoro?
Definitivamente si, quello definitivo.
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