“Killing Technology” è la terza fase di quel processo di destrutturazione del genere thrash che condurrà i Voivod alle pagine più belle della loro carriera. È l’orrore asettico del silicio drogato dei circuiti, dell’intelligenza artificiale votata alla carneficina. È il cyber thrash, la visione malata e distorta di un futuro apocalittico di alienazione tecnologica, di una quotidianità fattasi incubo per essere divenuta avvezza agli orrori delle radiazioni, dei laser che tagliano a fette il cielo, delle mutazioni che sconvolgono i corpi.

È il 1987. I Voivod hanno da poco smesso di disseminare “guerra e dolore” (’84) e di ruggire in faccia al mondo di “fottersi e morire” (’86) e in molti si aspettano (e forse lo aspettano ancora oggi..) l’ennesimo disco violento, intransigente e privo di compromessi. La scena musicale internazionale (col thrash assunto al ruolo di genere estremo di riferimento), l’attitudine del gruppo dimostrata nelle precedenti uscite, e persino l’artwork (ennesimo parto dell’estro figurativo del solito Away), paiono dover escludere particolari stravolgimenti nella produzione della band. Parte la title track... e tutto sembra fin troppo nella norma. Speed - thrash anni ’80, diretto e immediato, da headbanging puro: strofe e ritornello si alternano come prescritto nel manuale del Giovane Metallaro. Persino le linee vocali si presentano più ordinate ed ordinarie: Snake sembra quasi voler addomesticare i propri latrati, cercando di conciliare il tentativo di un maggiore controllo sul cantato con l’irrinunciabile violenza della propria interpretazione. Nel frattempo ci si accorge dei progressi della band: il songwriting s’è fatto più maturo, più compatto. Piggy sembra essere riuscito nel proprio intento: amalgamare e far crescere il gruppo tecnicamente, fornendogli i mezzi per dare voce alle proprie visioni musicali.

Ma proprio quando si sta per prendere l’etichettatrice, proprio quando si è pronti ad archiviare il tutto con un “bello, ma già sentito”, inizia la rivolta. È il caos a prendere il sopravvento, lo stravolgimento della forma canzone, dei canoni del genere. Suoni, tempi e voci filtrate si mescolano e si contorcono: è il multiverso voivodiano che inizia a prendere forma, avvolgendosi su se stesso in cerchi concentrici e moti perpetui di accelerazioni e stacchi. Ogni singolo brano (con la sola eccezione di “Ravenous Medicine”: forse l’episodio più tradizionale del pacchetto) finirà per seguire questo non-modello: una prima parte rivolta al passato e al presente, ancora legata agli stilemi del metal estremo imperversante negli anni di uscita del disco, e una seconda, proiettata nel futuro della band e della musica metal in generale, frammentazione e sfaccettatura del monolite thrash. Il risultato, per certi versi, rimane invariato, ma mutati sono i mezzi utilizzati per raggiungerlo (causando, da questo disco in poi, croniche storciature di naso da parte dei puristi): una pesantezza non più imputabile all’intransigenza del sound (“Maybe because we are heavier than all destructors”, cantava Snake nel precedente “RRROOOAAARRR”), ma fondata sulla lunghezza dei brani, oltre che sulla complessità, imprevedibilità e, in alcuni casi, inacessibilità delle strutture e delle soluzioni compositive.

Accantonate le gesta barbariche del “grand master of fast purification” Korgull, il palcoscenico su cui prendono vita gli incubi apocalittici dei quattro canadesi non è più il medioevo post atomico dei primi dischi, ma un nuovo e più evoluto scenario futuristico, permeato di un orrore ancor più inquietante perché prossimo a divenir tangibile realtà. È il fantasma della primavera nucleare del 1986 (anno del disastro di Chernobyl) a ispirare profezie di alienazioni tecnologiche, di ergastoli spaziali (l'eccellente “Forgotten In Space”), di mutanti e uomini ridotti a cavie da laboratorio (“Ravenous Mdecine”), di un destino di distruzione e di schiavitù al progresso che sembra essere già scritto nelle pagine dell’evoluzione umana (“the evolution can't run without damage”). Quel progresso scientifico e tecnologico di cui non possiamo più fare a meno e che esigerà, prima o poi, il proprio tributo di sangue (“Don't be scared, the engines exploded, but it's just a technological risk”).

Ascoltato col senno di poi, “Killing Technology” soffre, inevitabilmente, il confronto con le produzioni immediatamente successive della band: “Dimension Hatross” (’88) e, soprattutto, “Nothingface” (’89). Eppure gli vanno riconosciuti alcuni meriti che, senza renderlo un capolavoro, ne aumentano la qualità e l’importanza. Forse non sarà paragonabile, per genio, inventiva e sperimentazione, al contemporaneo “Into The Pandemonium”, ma è con questo disco che D’Amour e soci capiscono di potercela fare, di avere i numeri per realizzare quella svolta musicale che li condurrà a miscelare pregevolmente metal, psichedelia e progressive. È il coraggio di osare, il tentativo, magari ancora acerbo, di dare una nuova veste, quella dell’imprevedibilità, ad un genere che, di lì a pochi anni, avrebbe detto tutto - o quasi - quello che aveva da dire.

È il seme della sperimentazione che si fa spazio tra le distorsioni… timidamente… prima di prendere il sopravvento.

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