“La rovina dei giovani è cominciata con…”

“Con i capelloni!”

“I capelloni.”

“La minigonna!”

“La minigonna.”

“Il grammofono.”

“Il grammofono no.”

“Un poco pure il grammofono.”


Pare ci fosse la faccia di bronzo di un repubblicano di ferro come Nelson Rockefeller dietro la nascita di uno dei meglio riusciti film di animazione della Walt Disney. Siamo negli anni quaranta. Biancaneve e i sette nani anno fatto polpette della strega cattiva, Pinocchio ha perso la testa per Greta Garbo, Bambi è oramai una gustosa bistecca di cerbiatto e le vicende del piccolo elefantino volante Dumbo – a tale proposito vedasi pure “1941 Allarme a Hollywood” di Steven Spielberg – hanno fatto piangere più di qualche ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti. Adolf Hitler ha in mano mezza Europa e, poiché i giapponesi hanno bombardato qualche barchetta giù a Pearl Harbor nelle isole Hawaii, proprio quelle da dove sessanta anni dopo Graham Nash dice di combattere gli orrori e le deformità del capitalismo, gli americani hanno deciso di entrare in guerra contro i nipponici, la Germania nazista e l’Italia del “Mascella”.

Walter Elias Disney ha un nome da bluesman ed è nato a Chicago (Illinois), la città resa celebre dal sound di musicisti come Bo Diddley e Willie Dixon, Muddy Waters e Sonny Boy Williamson I e II, ma è bianco, non sa un cazzo di Robert Johnson e nei suoi film lo Zio Tom è il solito servitore di colore dal cuore d’oro che racconta delle vicende di Fratel Coniglietto e Compare Orso ai ricchi nipotini del padrone. Tutta roba che farebbe venire il voltastomaco a Malcolm X, ma allo stesso tempo tutte caratteristiche che, agli occhi di Rockefeller, fanno di Walt un buon americano. In quegli anni infatti Nelson Rockefeller, che poi è nipote del celeberrimo John Davison, lavora all’Ufficio per il coordinamento degli affari internazionali e decide che, allo scopo di dare una lavata al cervello degli amici sudamericani, non c’è niente di meglio da fare che contattare Disney, le cui produzioni hanno già ottenuto grande popolarità e fama internazionale, offrirgli un tour turistico in località dell’America Latina e qualche decina di migliaia di dollari per documentarsi su cultura, usi e costumi delle popolazioni locali e realizzare produzioni a scopo celebrativo e propagandistico.

I risultati di questa nemmeno troppo insolita collaborazione tra la multinazionale del topo più amato dai bambini di tutto il mondo (non ce ne voglia Jerry…) e lo stato americano sono due lungometraggi. Il primo dei due si intitola “Saludos Amigos”, un discreto film di animazione a episodi (quattro) ancora oggi di tanto in tanto trasmessi, seppure singolarmente, alla televisione. Ci sono Paperino sul lago Titicaca, Pippo che fa il gaucho, l’aeroplanino Pedro che sorvola le Ande e il verde pappagallo antropomorfo Josè Carioca, una versione brasiliana di Paperino, appassionato di calcio e matto per la fagiolata, che balla la samba. Il secondo esce nelle sale cinematografiche americane due anni più tardi e si intitola “I tre caballeros”.
Come e più del precedente, anche questo film è un riuscito e divertente omaggio all’America Latina e un grande capolavoro di animazione e di tecnica. Il perfezionamento della “tecnica mista”, che prevede appunto l’ “interazione” tra personaggi in carne ed ossa e cartoni animati, permette la realizzazione di scene più spettacolari rispetto alle precedenti produzioni Disney (“Fantasia”, “Il drago riluttante”, “Saludos Amigos”). Il lungometraggio è pure questa volta suddiviso in episodi, tutti rigorosamente ambientati in Sud America e tutti magistralmente tenuti assieme da sequenze di intermezzo forse e paradossalmente più spettacolari degli stessi.

I tre caballeros sono il solito Paperino e suoi due vecchi compari del Sud America: Josè Carioca, di cui abbiamo già detto, e Panchito Pistoles, un galletto messicano fuori di testa e difficilmente e raramente riproposto nelle vicende e storie Disney. E’ il compleanno di Paperino e la ricorrenza diventa un’occasione per vivere caleidoscopiche e praticamente allucinate avventure e disavventure nell’America Latina, sorvolare il Messico a bordo di un tappeto volante, viaggiare su uno strambo treno nel meraviglioso stato di Bahia in Brasile e incontrare indimenticabili e assurdi personaggi come il piccolo pinguino Pablo che dal Polo Sud si mette in viaggio sulle orme di Robinson Crusoe per raggiungere le isole tropicali, lo strambo e irritante uccello Aracuan, il somaro alato Burrito. Paperino per la prima e unica volta di sempre corre dietro tutte le (meravigliose e bellissime) donne che incrocia sulle spiagge di Acapulco, o in un assolato deserto tra cactus che fanno il paio con gli elefanti rosa di Dumbo tanto sono inquietanti. Alla fine c’è anche una corrida e fuochi di artificio e, sebbene siamo oramai adulti e consapevoli che tutte le belle cose prima o poi finiscono, "cantando e ballando la samba e il caramba", una lacrima ce la facciamo scappare comunque.

E’ tuttora irrisolta e da chiarire la questione del grammofono. Da una parte è certo difficile, complicato e pretenzioso, forse allucinante, sostenere e provare che film come “Saludos Amigos” e “I tre caballeros” possano avere compromesso e manipolato i cervelli e la cultura della popolazione latinoamericana. D’altra parte è innegabile che questi statunitensi non fanno mai nulla per nulla. Le versioni più diffuse raccontano che questi film sono stati girati negli anni quaranta per diffondere in qualche modo una immagine positiva del sistema di vita americano e capitalistico nei paesi dell’America Latina a discapito delle ideologie della Germania nazista, che pare avessero una certa presa sulla popolazione del Sud America in quegli anni. Ora, al di là delle oggettivamente e storicamente indifendibili teorie naziste, è indubbio che nel corso dell’ultimo secolo la propaganda americana sia sempre riuscita nei suoi scopi e finalità in tutte le sue più o meno evidenti manifestazioni. E’ stata questa che, propinando un unico apparentemente ideale sistema di vita, nell’ultimo secolo ha sancito l’affermazione del sistema di vita capitalistico americano e portato al pare definitivo tramonto delle ideologie, al crollo dell’Unione Sovietica, alla caduta del Muro di Berlino. Dove non hanno potuto le strategie militari, i satelliti, i voli spaziali, è arrivato Topolino e ha fatto piazza pulita. Anche in Sud America, dove gli americani hanno storicamente fatto i propri porci comodi certo senza badare alla salvaguardia e al rispetto della cultura e delle tradizioni locali.
Anche in Italia.

Hollywood è una gigantesca presa per il culo e un punto di ritrovo per fenomeni da baraccone, e l’America di Jack Kerouac e Charles Bukowski esiste solo sulla carta stampata e nelle teste malate di qualche inossidabile e inguaribile hippie. Ogni volta che ascolto un disco di Bob Dylan, di Patti Smith, i Buffalo Springfield, Simon e Garfunkel mi vergogno come un ladro, capisco perché gente come Kurt Cobain ha deciso di farla finita e mi viene da vomitare quando alla televisione raccontano delle depressioni e di tutte quelle puttanate sulle droghe e sulla vita dissoluta e dannata delle rockstar. Maledetto rock’n’roll. I capelloni, la minigonna, il grammofono…

Ci hanno venduto una grossa fregatura.

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