Non è dato sapere in quale stato febbrile di alterazione della coscienza si trovasse Walter Hill, nel momento di condurre la regia di The Warriors, anche se una moltitudine di agenti esterni arrivò in soccorso alla regia narcolettica. In primis il mito, il film nella sua pozza lavica di attriti, convulsioni e derive, è classico nella sua genesi umana e nel suo flusso migratorio. Rivive tra le mura della grande mela l’antico mito greco di Anabasi di Senofonte; il film condensa l'avanzata dell'esercito greco in una scala compatta, degna di una città che promuove un nuovo senso di identità completamente indipendente, ogni quattro isolati circa. Come i Greci, penetrati troppo a fondo nel territorio nemico ed in ritirata verso un posto sicuro che si preannunciava lunghissimo e pieno di insidie, così l’assassinio del leader maximo delle band Cyrus- Ciro scatena una guerra di terra che si estende nell'area metropolitana newyorkese, costringendo i figli più orgogliosi di Coney Island, i Warriors, a un viaggio irto di 30 miglia attraverso l'ampiezza del manicomio di cemento che chiamano casa. Quel luogo selvatico e natio, riconosciuto in una celebre frase del film un posto di merda, ma che vale le vite spese nella notte per ritornarci a vivere.

Il classico rivive le sue sterminate esistenze tra i vicoli più riottosi di Harlem, tra le oscurità monocromatiche del Bronx, l’incipit di tutto è in quello sparo, nell’uccisione del leader maximo, di colui che aveva creato l’illusione di aggregare ed integrare tutta la selvaggina multicolore di New York; quel colpo di pistola che rimbomba in infiniti echi dai tempi di un' America Fordista, dividi ed impera, ancora meglio se fai di tutto uno spezzatino, ancora meglio se ogni fazione è riottosa con l’altra…

La policromia marchiata nella genia, un concetto che sarebbe stato bello anche vedere sviluppato da un mago del genere come Croneberg; ogni gang si riconosce con una teatralità sacrale nel proprio colore, nel proprio vissuto territoriale, è la tribalità che prevale sulla società urbana e civile. Tratto caratteristico di tutto non è nella comunicazione, nella spiegazione, nell’enfatizzare concetti ed ombreggiarne altri, qui solo al colore è data facoltà di parola ed il resto è sopravvivenza.

Dopo il fatidico colpo di pistola che getta tutti nello scompiglio, l'orgoglio alimenta gran parte del conflitto che si abbatte sui Warriors "Se indossiamo i nostri colori qui fuori, non c'è modo di nascondersi", avverte il fedele soldato Warrior soprannominato Cowboy. "Chi vuole nascondersi?", risponde il suo connazionale Vermin. Pochi istanti dopo inizia una rissa con gli Orphans sul territorio della banda rivale, tutto perché i Warriors preferiscono rischiare la vita in un altro scontro piuttosto che privarsi del sacri colori della propria gang. Sebbene la sceneggiatura di Hill preceda il concetto hip-hop di "rappresentare", i Warriors considerano la loro eredità di Brooklyn un talismano di legittimità, status e potere.

I colori, segnale di appartenenza, un linguaggio tribale fatto di giacche di pelle, bandane e pitture da guerra. Ogni gang ha il suo stile cromatico distintivo, quello dei Baseball Furies: il verde e il giallo esplodono sui loro volti come minacce tossiche, mentre il nero delle loro uniformi li rende predatori silenziosi, ombre senza volto.

I Rogues: il rosso e il nero dominano, come demoni urbani che si nutrono del caos. Sono l’antagonista senza volto, il finanziere shortista, l’incubo dietro l’angolo. I Warriors: il marrone rossiccio delle loro giacche non è casuale—è la terra, la sopravvivenza, l’istinto primitivo di restare in piedi fino all’alba. Per un’altra alba.

Con una lunga notte nella città che non dorme mai, Hill ha immaginato una New York lontana dalla seducente sporcizia del suo contemporaneo Taxi Driver. L'atteggiamento del film lo colloca a metà strada, consapevole della sporcizia e del degrado e tuttavia infatuato da essi. New York può essere sporca, rabbiosa e sovraffollata, ma è l'unica che abbiamo.

Immaginate che i Warriors non riescano mai a tornare a Coney Island. La loro odissea urbana si potrebbe trasformare in una prigione a cielo aperto, e chi potrebbe salvarli se non Snake Plissken? Perché John Carpenter prenderà la violenza tribale di The Warriors e la immergerà in un’apocalisse neo-noir, dove le gang non hanno solo mazze e coltelli, ma anche un presidente da salvare e un’ anarchia totale da cullare. Se Walter Hill ha dipinto New York come una giungla urbana, Carpenter l'ha trasformata in un pianeta post-civilizzazione dove la città stessa è una creatura senziente che mastica e digerisce chi osa metterci piede. Prima che tutti, abitanti, istituzioni, sovrani, diventassero tutti inerzialmente microrganismi gastrointestinali.

Alla fine, The Warriors non è un film. È un sogno febbrile, una fiaba oscura raccontata ai neon della metropolitana, un viaggio surreale dove la violenza è coreografia e il pericolo un gioco mortale. Un'odissea senza Ulisse, una leggenda urbana che continua a pulsare nelle vene di chiunque abbia mai sentito il suono metallico delle rotaie sotto un cielo senza stelle.

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