La conflittualità, intesa nell'accezione più ampia possibile del termine, è cardine e motore di molte dinamiche sociali, è fulcro del cambiamento, porta al confronto fra diversi punti di vista. E, caratteristica fondamentale, metabolizza premesse differenti per produrre risultati nuovi.
Nel ristretto ambito musicale tensioni e divergenze artistico-comportamentali sono componenti intrinseche e capitali nell'alchimia di una band. Grazie a tali dinamiche conflittuali, perennemente presenti all'interno del gruppo, l'ensemble West Coast Pop Art Experimental Band è stato in grado di produrre una musica che, seppur non imprescindibile, rimane come un fulgido esempio di psichedelia West Coast.
Niente più che un gruppo di adolescenti quando incisero i primi brani nel 1966, ebbero la (s)fortuna di incontrare un benestante avvocato, Bob Markley durante un concerto privato degli Yardbirds nella sua villa a L.A. Con lui trovarono soldi, un contratto discografico e le suddette tensioni che, se da un lato ne minarono l'attività artistica, dall'altro ne furono il motore motivazionale. Markley era il tipico figlio di papà capitato per caso in mezzo al fervore hippie del periodo, assolutamente incapace di suonare alcunché, ma con un idea ben precisa in testa: le donne. Sue testuali parole. Non contento questo morto di figa riuscì a infinocchiare gli altri, diventanto detentore unico dei diritti sulla loro musica.
A dispetto di tutti questi contro, la W.C.P.A.E.B. riuscì a sfornare ben quattro album, di cui solo il primo superfluo; dei restanti tre il più coeso e con le migliori atmosfere rimane forse il secondo.

"Vol. 2" si fa preferire principalmente per la presenza contemporanea delle due anime della band: quella naif e molto freak di "Smell Of Incense", pietra miliare di psichedelia sognante, riuscitissimo tentativo di rendere in musica il sogno hippie, Ande quella oscura e esteriormente impegnata dell'inno tribale antimilitarista "Suppose They Give A War No One Comes", il pezzo migliore della loro carriera e uno dei pochi dove canta Markley. Il resto procede fra alti e bassi: l'opening "In The Arena", che ironizza sulle rivolte di Watts del '65, ha un gran groove inopinatamente interrotto da vocalizzi estemporanei, "Unfree Child" è piena di anfratti psichedelici in cui rifugiarsi, "Carte Blanche" ha uno strano cipiglio garage e "Queen Nymphet" alza un po' troppo il tasso zuccherino nel sangue.

Non stiamo quindi parlando di una band, né di un disco fondamentali, ma di una produzione che, a ben spulciare, può riservare inattese gioie. Aggiungo, tanto per sfatare un mito, che il gruppo non assumeva alcun tipo di droghe.

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