Lo ammetto, non ho amato "To Lose My Life". Alle mie orecchie è sempre risultato "i singoli + qualcos'altro per tirare la quarantina di minuti canonica", il che non sarebbe nemmeno necessariamente un male se il "qualcos'altro" fosse di buona caratura, cosa verificatasi solo fino a un certo punto. Questo per dire che l'approccio con cui mi sono messo all'ascolto dell'ultimo "Ritual" era leggermente prevenuto ma infondo speranzoso perché i londinesi hanno dimostrato di sapere scrivere grandi pezzi nel precedente sforzo.

L'attacco di "Is Love" non mi dice granché, la solita vociona da baritono di McVeigh, più o meno i soliti synth, più o meno il solito basso, la batteria, ecco, quella un po' meno interessante, insomma, sostanzialmente uno di quei pezzi che rientra nel "qualcos'altro per tirare" di cui sopra (anche se dal vivo mi fa di pezzo che rende molto di più che non su disco). Poi, uguale preciso come con "To Lose My Life", combo di pezzi che ti illude che da qui in avanti si inizia a fare sul serio (sì, per l'album precedente intendo "Death" e "To Lose My Life", che sarebbero le prime due traccie, però, insomma, ci intendiamo). "Strangers" e "Bigger Than Us" sono davvero due ottimi pezzi, soprattutto il primo che ha un testo pazzesco ("Strangers don't hide. The morning hunts you down, and there's nothing stranger than to love someone.") e un giro di synth che si appiccica alla corteccia celebrale e fatica ad andarsene. Poi, quando sei tutto ringalluzzito e convinto che, finalmente, questi hanno tirato fuori il talento che sei convinto abbiano, arriva... ehm... praticamente tutto il resto del cd! "Peace & Quiet" è una porcata, sic et simpliciter. "Streetlights" scivola via come l'acqua senza provocare altro che il nulla totale. Poi, come "Farewell To The Fairground" si ergeva nella seconda parte del primo album come un monumento all'illusione (cosa che però uno ovviamente scopre solo a fine cd, mannaggia a sti tre stronzi), in questo sbuca "Holy Ghost", che puzza di New Order lontano un miglio, però è ben confezionata, finalmente Lawrence-Brown fa un ottimo lavoro alla batteria, e ti regala ancora qualche piccola speranza su un finale di livello. Speranza che, ovviamente, verrà disattesa, in piena - diciamo così, perché oramai è attestata - tradizione whiteliesiana, con gli ultimi brani buoni solo come colonna sonora di una serie di sbadigli, con la mezza eccezione di "Bad Love", meno peggio delle altre, ma sempre e comunque niente di indimenticabile o che possa smuovermi da una valutazione insufficiente dell'album.

Tirando le somme, i White Lies hanno fondamentalmente proposto una edizione peggiorata del già poco-più-che-sufficiente cd precedente: i brani migliori non reggono il confronto con i pezzi più belli del precedente (con l'eccezione lodevolissima di "Strangers", altro monumento all'illusione e al talento sommerso, ma sommerso tanto) e il "qualcos'altro" non è migliorato di livello, né brilla per amalgama fra i singoli pezzi. E, se al primo album un album così concepito ti può anche dare qualche speranza rispetto ad una futura evoluzione (specie considerando la giovane età del trio), quando il secondo album addirittura mostra segni di regressione vuol dire che, dietro alle montagne di fumo erette dai soliti NME, Q et similia, di arrosto ce n'è davvero pochino.

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