Ci sono etichette che da sole rappresentano un suono o un genere.

Mi vengono in mente la In The Red per il garage dai '90 in poi, la Kranky per il post rock, la Island nei 70 per il reggae, ma gli esempi sono molteplici. Nell'ambito psichedelico degli ultimi 15 anni, un posticino d'onore sarebbe da riservare alla Holy Mountain.
Già il nome, chiaro rimando al film La Montagna Sacra di Jodorowski, di per sé bello visionario, chiarisce gli intenti dell'etichetta. Intenti confermati da un portfolio di gruppi tendenti al fuori di testa: in ordine sparso sono passati Six Organs Of Admittance, Residual Echoes, La Otracina, e molti altri. Ultimi, ma per questo non meno validi i White Manna, che pubblicano un secondo album ancor più riuscito del già interessante predecessore.

Quasi invariata la ricetta vincente, a base di ritmi ipnotici, chitarre in delay (qualcuno ha detto Spacemen 3?), e voci effettate, condivisa da molti altri gruppi di odierna psichedelia, un nome su tutti i Wooden Shjips. Ma i ragazzi calcano di più sui volumi e le chitarre, partendo spesso per viaggi psico interstellari tipicamente Hawkwind (“Ascension” e l'iniziale “Transformation”) e non disdegnando i tour de force mantrici (“Illusion Of Illusion”). Inoltre hanno il merito di infilare furtivamente una bella cover dei Deviants, di cui stravolgono il blues iperacido del classico “I'm Coming Home” in una cassa dritta accompagnata da un assalto di chitarre spaziali.

Nel genere già una sicurezza.

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