Se n’è andato all’altro mondo, pochi giorni fa, il chitarrista cantante e compositore inglese John Sykes. Se l’è portato via un cancro, a 65 anni. A me questo musicista piaceva e per scriverne due righe di commiato mi appoggio alla canzone che più lo ha fatto conoscere in carriera, probabilmente quella che meglio lo rappresenta.

Sykes mi attraeva perché, nonostante l’aspetto tamarro standard comune a migliaia di chitarristi hard rock e metal come lui, per larga parte musicalmente insignificanti, aveva il cuore ben collegato al suo strumento e suonava col giusto e corretto trasporto, infondendo melodia oltre che grinta, misura unitamente alle solite scenografie rock, passione assieme al virtuosismo.

Ascoltare “Still of the Night” a distanza di 38 anni dalla sua pubblicazione permette di focalizzare le cose eccelse e gli orpelli, di mettere in un contesto definitivo le genialate e i fronzoli che la caratterizzano. Il riff resta imperiale, scolpito nel marmo, terremotante, appagante, fra i migliori dello scorso secolo. E sì, l’ispirazione proviene da “Black Dog” degli Zeppelin, che d’altronde s‘erano a loro volta appoggiati a quella “Oh Well” dei Fleetwood Mac che per prima aveva imposto quel tipo di brillante alternanza voce a cappella/frase di chitarra in un brano rock blues. Il riff è di Sykes, la struttura del canto e quindi la sua discendenza dagli Zep è invece dovuta al cantante David Coverdale, quindi…

Così come del frontman è l’idea, giusta, di spostare a interludio centrale il lungo break strumentale in crescendo che caratterizza la canzone, espandendola fino a quasi sette minuti e rendendola così un vero inno, uno dei più celebri in campo hard rock e metal melodico. Sykes l’aveva concepito per primo, come esteso inizio del brano, trovando poi solo in un secondo tempo quel riffone fantastico a suo coronamento. Merito di Coverdale avere invece imposto il superbo giro di chitarra in primo piano, quasi dall’inizio, ma suo demerito invece l’aver gigioneggiato troppo a lungo, col suo inestimabile ma borioso vocione, nei meandri del crescendo centrale di Sykes (ben sostenuto dalle tastiere atmosferiche di Don Airey), volgarizzandolo un poco.

Lasciamo perdere poi il testo, la solita pièce testosteronica ma chi se ne importa, qui va ascoltata la chitarra, le chitarre di Sykes, che ci donano una performance perfetta con un suono perfetto, piazzate come sono in quella zona hard ai confini col metal che consente ad entrambe le rispettive fazioni di estimatori di trarne compiuto godimento. E c’è pure la voce di Coverdale, certo: furba quanto si vuole, ma con una base blues disarmante e soprattutto con quel suo salire su alla gola partendo da molto in basso, da molto dentro, dai coglioni, dall’intestino, dallo stomaco come nessun’altra. Una voce antipatica per molti, ma una grandiosa voce… Vibrante di narcisismo, certo, come quella (pur diversa) di Freddie Mercury.

Gente come Sykes, metallari con giudizio e idee, strumentisti attenti e intelligenti, è merce non tanto comune, ma neanche rarissima. Sbagliato spacciarli tutti come virtuosi del cacchio; Sykes non lo era, così come non lo sono Bettencourt, Kotzen, Jackie Lee, Danny Stag, Ty Tabor… diversi altri.

E grazie di tutto anche a te allora John Sykes, alto bello e tamarro e… bravo. Quella Les Paul nera la indossavi da dio.

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