“American Primitivism”, definizione di una corrente musicale, probabilmente iniziata da quel genio pazzoide di John Fahey negli anni ’50, che decontestualizzava le tecniche chitarristiche del fingerpicking blues degli anni ’30, eliminando la voce e fregandosene della struttura tipica della forma canzone. Oltretutto allungando minutaggi e spingendo sulle ripetizioni cicliche dei giri.

Posta così potrà sembrare musica ostica e anche un po’ boriosa, e fondamentalmente non sentitevi scemi se l’effetto di un disco di Fahey o dei suoi coevi Sandy Bull e Robbie Basho, vi strapperà più di uno sbadiglio. E’ musica che mira al cervello più che al cuore, in alcuni casi con la (non) struttura di uno stream of consciousness, e come tale va lasciata fluire.

Interessante notare come, indicativamente da metà/fine ’90, il genere ha goduto di una riscoperta simultanea da parte di giovani invasati del fingerpicking estremo (eh sì perché è un genere in cui la perizia tecnica è principio base del suo esistere), capaci però di declinare lo stile al proprio gusto personale. Ne citiamo alcuni: Jack Rose, scomparso a 38 anni nel 2009, il più fedele al canone Faheyano,prettamente acustico e ultratecnico. Oppure Ben Chasny (Six Organs of Admittance), artista multiforme che ha spaziato dal drone elettroacustico, alla psichedelica folk al rock heavy, ricordando sempre il suo stile “primitivo”. O anche Sir Richard Bishop, quasi beefheartiano nell’approccio al fingerpicking. A loro si aggiunge meritatamente William Tyler già nei  Lambchop e Silver Jews,  con questo suo secondo disco solista.

Totalmente strumentale, “Impossible Truth” racchiude nelle sue 8 tracce varie sfumature dell’American Primitivism, partendo da elucubrazioni per sola chitarra (“A Portrait of Sarah”, “We Can’t Go Home Again”), per poi allargare lo spettro sonoro con lap steel guitar, vibrafoni e basso, lambendo territori quasi country (“Country of Illusion), echi rumoristi quasi Velvetiani (“Cadillac Desert”),un inusitato  speed fingerpicking con banjo finale (“Hotel Catatonia”), fino al crescendo distorto-rumorista di “Wolrd Set Free”, in cui il nostro si prende la libertà di far entrare addirittura batteria e sax impazzito.

Il bello è che, se tutte queste mie descrizioni possono far pensare ad un’opera di difficile digestione, la forza del disco sta proprio nella facilità con cui si lascia ascoltare, valore che ne fa da ora una delle uscite più interessanti dell’anno.

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