Questo film riscopre il semplice, bellissimo e ormai dimenticato “teorema della tartaruga”. Non puoi metterla in posa. Devi adattarti alla sua lentezza, ai suoi giri. Che nel loro cerchio descrivono un destino. “Mi ci è voluta una giornata intera per avvicinare la tartaruga. Tutta una giornata per farle capire che rispettavo il suo territorio” ha raccontato Sebastiao Salgado, descrivendo il tentativo di fotografare una tartaruga delle Galapagos per il suo grande reportage dal titolo Genesi.

Le foto in bianco e nero di Salgado, così reali e così parziali (solo nella fotografia a colori c’è già tutto il visibile), aiutano a ricostruire in parte quella realtà, a riempire il vuoto di realtà che c’è dentro di noi, utilizzando con pazienza la memoria e l’immaginazione. Ti muovi tra paesaggi umanamente immensi, sterminati. Prova a farlo con cautela, entusiasmo e amore, sembrano dire, perché “il pianeta è vivo, connesso in tutti i suoi elementi, vivente a tutti i livelli”. Cerca di chiudere il tuo cerchio. È già tantissimo, un piccolo miracolo che si schiude.

Fedele al teorema, Salgado si avvicina alla fotografia non più giovanissimo. Nato nel 1944, tenta di diventare avvocato e abbandona lo studio, poi si iscrive a Economia e Statistica. Vuole di nuovo abbandonare tutto per fare l’ingegnere meccanico, quando, durante un viaggio in Africa commissionato dalla banca di investimento per cui lavora, decide di diventare fotografo. È il 1973. Per la prima volta vede “ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso tra i muri delle case.” Documenta la rivoluzione portoghese del ’74, le condizioni dei lavoratori immigrati in Europa, le guerre coloniali in Angola e Mozambico, la vita dei contadini indigeni dell’America Latina, la carestia in Africa negli anni Ottanta, la fine della manodopera industriale. “Lavoratori” e “Migrazioni” sono progetti composti da centinaia di immagini scattate in tutto il mondo.

Durante un reportage sul genocidio in Ruanda, nel 1994, si ammala di una profonda depressione che gli fa perdere qualunque tipo di fiducia nel genere umano, e pensare di abbandonare per sempre la fotografia. In Ruanda vidi la brutalità totale. Vidi persone morire a migliaia ogni giorno e persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Fu a quel punto che mi ammalai”.

Dopo la lunga crisi, Salgado ha ripreso a fotografare concentrando la sua ricerca sulla bellezza commovente del nostro pianeta. In dieci anni (2003-2013) ha prodotto “Genesi”, un omaggio alla Terra e alle sue creature, e anche un modo per esorcizzare orrori e violenze, realizzando che “siamo diventati animali molto complicati, estranei al pianeta e a noi stessi”. Per questo lavoro Salgado ha viaggiato alla scoperta di luoghi e paesaggi di estrema bellezza, ancora incontaminati. Amazzonia, Congo, Antartide, Nuova Guinea. Nel tentativo di mostrare che “circa metà del pianeta è rimasto esattamente come nel giorno della Genesi” è arrivato alle origini del mondo, ne ha salvaguardato il futuro, e ha partecipato a una nuova armonia.

Innocenza e dolcezza sono messe in controluce, inserite dentro l’eterno contrasto tra vita e morte, luce e ombra, distruzione e speranza che è alla base dell’intero lavoro di Sebastiao Salgado e che Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio di Sebastiao, sono riusciti a trasmettere in maniera molto efficace in “Il Sale della Terra” (2014). Lo spettatore è invogliato a prendersi del tempo per osservare immagini meravigliose che impressionano e commuovono. Una giovane madre, in un campo profughi quasi post-apocalittico, che tiene in braccio e quasi avvolge il suo piccolo bambino, vitale e sorridente, mentre sullo sfondo si alzano i fumi della guerra. Quello che resta di una scuola dopo un’uccisione di massa in Ruanda. Un bambino vestito di niente che affronta la siccità insieme al suo cane guardando l’orizzonte con fierezza e dignità. Sostenuto da una forza simile a quella evocata da Fred Sparks, il reduce di guerra, parlando con il protagonista del film “Lucky” di John Carroll Lynch, un ironico e ormai molto vecchio Dean Stenton, riguardo un attacco al nemico, e una bambina vestita di stracci: “Veniva da dentro, dal centro del suo corpo. In quel luogo dimenticato da Dio, una cosa del genere risplendeva. Ci lasciò di stucco. Eravamo lì, tutti ricoperti di merda, pezzi di persone ovunque, non era rimasto neanche un albero. E lei che sorrideva da orecchio a orecchio. Se penso al viso splendido di quella bambina e a quel sorriso, in mezzo a tutto quell’orrore, a come stava celebrando la gioia… Non esistono medaglie per quel tipo di coraggio”.

Ma vediamo anche il cerchio di Salgado chiudersi piano, con naturalezza e dolcezza, attorno a lui, a sua moglie Lélia Wanick, compagna da una vita, ai loro figli, alla sua terra e a casa sua, dopo aver percorso il mondo a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e di una mongolfiera. Osserviamo il suo arco viaggiare fuori dai muri e dai cortili delle case, attraverso il tempo e lo spazio. Descrivere un destino grande come il mondo che ha abitato, e piccolo come il bambino che per primo l’ha sognato.

Sembra preoccuparlo sempre di più il destino della terra in cui è nato, il Brasile, delle foreste -assieme a Lélia ha reimpiantato due milioni di alberi, di centinaia di specie diverse, in un’area a Sud-Est del Brasile per “respirare meglio e nutrire speranze per il futuro”- dell’acqua, e dei circa cento gruppi umani che vivono nel completo isolamento. “Fotografo in mezzo a loro da quattro anni, lo farò ancora per due. Questo lavoro uscirà nel 2021 e credo si chiamerà semplicemente Amazzonia” ha raccontato recentemente, ospite in Italia.

Forse è tutto qui, tutto questo, il “vero raccolto della vita quotidiana” di cui parla Thoreau in “Walden”, “altrettanto indescrivibile dei colori del mattino e della sera”. Un pugno di polvere di stelle, un segmento dell’arcobaleno che cerchiamo di tenere stretto fra le mani.

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