Nell’ambito dei gruppi rock definitivamente inaffondabili, che cioè continuano imperterriti, dopo cinquant'anni di carriera, a produrre nuova musica benché essa sia ormai destinata a pochi intimi, un plauso deve andare a questi Wishbone Ash in virtù di un’ammirevole, sorprendente tonicità e freschezza. “Blue Horizon” è del 2014, sarà il loro ventesimo-venticinquesimo album, ha una bella e vistosa copertina e suona alla grandissima grazie a mestiere e passione, nerbo e misura, classe e personalità.
La longevità dei Wishbone Ash trova spiegazione nella tenacia, energia, motivazione di uno dei suoi membri originari e precisamente del chitarrista e cantante Andy Powell. Il quale a valle di ogni contrattempo, litigio, abbandono oppure cacciata di musicisti o manager, incluse perdite di contratti discografici eccetera, ha proceduto imperterrito a rifondare ogni volta il gruppo e rimetterlo on the road e sul mercato. Con una forza d’animo comune a poche altre storiche figure chitarristiche trainanti di formazioni super veterane: mi vengono a caso in mente gli Uriah Heep di Mick Box, i Journey di Neal Schon, i King Crimson di Bob Fripp, i Lynyrd Skynyrd di Gary Rossington.
Wishbone Ash resta il gruppo più competente al mondo in materia di strutturazioni ed arrangiamenti basati sull’interpolazione fra due chitarre soliste di uguale, speculare dignità e importanza: più ancora degli Allman Brothers, degli Iron Maiden, dei Thin Lizzy, dei Night Ranger, dei già nominati Skynyrd, dei Doobie Brothers, dei Little Feat, dei Boston e di tante altre formazioni piene di chitarristi, i Wishbone hanno insegnato a tutti l’arte del focalizzare la musica sull’interazione brillante e giocosa di due strumenti gemelli, sul loro continuo rincorrersi, unirsi e poi diversificarsi, armonizzare e l’attimo successivo contrappuntarsi, stare insieme in primo piano oppure a turno, sempre pronti a cedere il testimone all’altro in un continuo, squisito e dinamico divenire.
Certo, si può aggiungere che questa focalizzazione sul lavoro delle chitarre è in qualche modo favorita dal fatto che le voci non sono questo granché... La mancanza di un potente e carismatico frontman è probabilmente la ragione per la quale questa band ha perso il treno del grande, duraturo successo. In quest’album la voce solista è costantemente nelle mani di Powell, il quale se la cava ma non è dotato di particolare temperamento, o timbro, o potenza, estensione, comunicativa… insomma di nessuna delle doti aggancianti dei grandi.
Il primo e l’ultimo pezzo di questo disco rinverdiscono l’amata, iniziale fase folk rock del gruppo, accantonata nei superficiali anni ottanta e poi riesumata a partire dai novanta, con le chitarre che s’inerpicano a disegnar melodie di umore tipicamente britannico d’antan, mentre la ritmica indugia verso grooves quasi a giga celtica, oppure bandistici (il rullante spazzolato che conclude l’album) e vi è pure la comparsa del violino di un musicista ospite, a rinforzare l’atmosfera da highlands.
Lo spazio musicale in mezzo a questi due estremi folk è riempito da brani piacevolmente vari, quasi tutti molto ben riusciti tanto che di riempitivo ne vedo solo uno, ossia il rock’n’roll ortodosso e niente più “Mary Jane”. Da vecchio appassionato di rock melodico suonato bene e col cuore al posto giusto, mi commuovo quasi all’ascolto di sapidi, adulti, riusciti numeri di hard rock, oppure addirittura di psichedelia sudista, ma anche di fusion vagamente jazz e il tutto sempre con un lavorio di chitarre soliste quasi abnorme ma del tutto funzionante perché, lo dico nuovamente, vi è capacità strutturale e diversificazione di suoni (non siamo certo alla presenza di un lavoro tipo quelli di Malmsteen… due strofe assolo un’altra strofa e fine).
In ordine di apparizione, da segnalare vi è innanzitutto la seconda traccia “Deep Blues”, che si fa largo con un riff in staccato semplice semplice bello bello in stile Ac-Dc/Bad Company. La peculiarità sta nel fatto che per queste due bande citate il pezzo sarebbe finito lì dopo tre minuti e mezzo, invece in questo caso prende a distendersi in un duello di molto onore delle due chitarre, che si risolve dopo un bel minuto e mezzo in una parte armonizzata finale di bell’effetto.
“Strange How Things Come Back Around” si muove in elegante up-tempo nelle strofe, per distendersi poi un poco prolassata nei ritornelli, ma c’è di nuovo una sorpresa dopo i soliti tre/quattro minuti: invece di dileguarsi con la canonica cantatina inframezzata dall’assoletto centrale, la musica a quel punto ritorna in assolvenza e parte una lunga coda di psichedeliche chitarre in doppio assolo che sembra addirittura di stare all’ascolto del compianto Duane Allmann insieme al compare Dickey Betts dei bei tempi Allman Brothers, con quelle note quiete e striscianti, musicalissime.
E’ il bello del fare dischi senza avere più addosso la casa discografica ad importi pezzi radiofonici e banali… I Wishbone non se li fila più quasi nessuno, ne hanno preso atto ricominciando da tempo a creare musica in assoluta libertà, accontentandosi del fatto di poterla offrire solo ad un ormai ristretto manipolo di vecchi fans, oltre a qualche lungimirante giovanotto fuori dal branco, in grado di focalizzare pienamente la loro peculiare bravura.
Lo stesso discorso di musica senza vincoli o quasi può essere applicato alla quarta traccia “Being One”, che indugia ciclicamente a cambi di tempo, da quattro a tre quarti in occasione del solo di Powell e poi di nuovo in 4/4, però con accenti diversi, per il solo in risposta messo insieme con grande tocco e contenuto melodico dall’altro egregio chitarrista, il finlandese Muddy Manninen.
La successiva “Way Down South” combina lo stesso scherzetto di “Strange…”: inizia con uno stoppatino di chitarra e canto in levare comune a mille altri episodi pop rock, ma poi si espande in un finale liricissimo e d’atmosfera, con Manninen scatenato colla sua Les Paul dal suono magistrale, caldo, lungo e un po’ nasale alla Mike Oldfield, per intenderci.
L’ultima segnalazione d’eccellenza è per “American Century”, una chicca a merito di un preambolo (ripetuto poi nel finale) delle chitarre che, lavorando in unisono e poi in armonia e poi in contrappunto, vanno a creare un pirotecnico incastro ritmico/armonico degno delle gesta dei magnifici Gentle Giant! La sezione cantata, al confronto, è assai più ordinaria e meno astuta.
Mi ricredo subito e dico due parole anche sulla canzone eponima dell’album, una faccenda di oltre sette minuti posta quasi alla fine nella quale rifulge il perfetto timing e l’efficacia mai invasiva ma eccellente del bassista Bob Skeat, capace di assicurare grandissimo groove all’equilibrato, agile hard rock del gruppo.
Non hanno niente da perdere i Wishbone Ash da molti anni a questa parte, come tanti altri dinosauri del rock classico. E’ così bello trovarli e sentirli così ancora in tiro, anzi più bravi, precisi, lucidi, abili e divertenti di una volta. Gran disco.
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