"Tarots and the North" (dodici scritti abbinati ciascuno ad un Arcano Maggiore di Luis Royo)

"VI. Temperance"

Da diverse ore ormai, in casa di Cefalo, risuonavano le voci dei suoi numerosi ospiti. Socrate era immerso in una fitta conversazione con Glaucone e Adimanto, avidi di scoprire i pilastri morali sui quali sarebbe dovuta poggiare la città ideale, garantendone l'armonia ed il perenne funzionamento. Tentando di giungere per via di esclusione all'essenza della giustizia, ed avendo già individuato la sapienza e il coraggio, il saggio filosofo continuò: «La temperanza è una sorta di ordine, un dominio imposto a certe passioni e desideri, che ha attinenza con quel modo di dire stando al quale, non so bene in che modo, uno potrebbe superare sé stesso». Se dovessimo trasferire tale acutissima definizione sui lidi, più superficiali ma non per questo meno interessanti o piacevoli, dell’ambiente musicale scandinavo sarei tentato di portare come esempio di tale virtù i norvegesi Wobbler ed in particolare il loro esordio del 2005 "Hinterland".

I cinque non hanno mai fatto segreto d'ispirarsi ai fasti sinfonici della scena inglese "d'epoca", senza comunque disdegnare la protezione dei numi tutelari Änglagård, prima indossando le vesti medievali dei Gryphon con l'ottimo "Afterglow" (uscito nel 2009 ma composto da pezzi scritti dieci anni prima) e poi convertendosi alle dottrine eclettiche dei Gentle Giant. I loro, lungi dal poter essere considerati sterili rifacimenti, sembrano piuttosto simpatici e consapevoli omaggi in onore dei pionieri del progressive rock e di certe floride sperimentazioni, esaminate ed ulteriormente sviluppate da un giovane e ingegnoso gruppo, capacissimo di dosare parsimoniosamente gli ingredienti di delicate pozioni magiche, evitando di farsi trascinare dall'arroganza o cadere preda di facili influenze, come è invece capitato ai connazionali White Willow, fortemente ridimensionatisi dopo lo splendido esordio del 1995 e poi franati impietosamente nel tentativo di semplificare uno stile strutturalmente irriducibile a canoni orecchiabili e adolescenziali.

«Ma non è un po' buffa questa espressione "superare sé stesso"? [...] Potrebbe anche significare che nello stesso uomo c'è una parte superiore e una inferiore, e quando la prima predomina si dice appunto che uno "supera sé stesso". Quando invece, a motivo di una educazione inadatta o di cattive compagnie, la seconda prende il sopravvento si dice che uno è "inferiore a sé stesso" e, per questa sua condizione, intemperante». È straordinario quanto il platonico sviluppo della precedente citazione sia adatto a descrivere le situazioni diametralmente opposte di entrambe le formazioni sopra menzionate, unite, nella gloria come nella sventura, dalla presenza dell'affaccendato tastierista Lars Fredrik Frøislie, dedito inoltre ad intessere le fin troppo edulcorate arie dei The Opium Cartel.

Proprio lui ci accoglie a suon di mellotron nel favoleggiante "entroterra" norvegese ("Serenade for 1652"), lasciando poi all'energica voce di Tony Johannessen il compito di narrarci la fiaba di un solitario viaggiatore, smarrito nei meandri delle proprie riflessioni e testimone, durante un lungo peregrinare, di serenate acustiche ai piedi di imponenti castelli, ardimentose cavalcate al seguito di una tastiera a caccia di antiche reliquie e ponderati consigli riferiti dalla sagacia di un flauto itinerante, in un epico racconto che conquista di diritto le vette del panorama sinfonico del nuovo millennio ("Hinterland").

Ma le meraviglie non finiscono qui poiché le scorribande ritmiche della batteria di Martin Nordrum Kneppen svelano scenari incantati e rocamboleschi, nei quali Kristian Karl Hultgren, impareggiabile marionettista, si diverte a tormentare il cantante, controllando la cadenza dei suoi versi penetranti con le corde del basso ("Rubato Industry"), mentre altrove la chitarra di Morten Andreas Eriksen, dopo aver dato l'addio al piano, strizza fugacemente l'occhio in direzione dell'austera Corte Cremisi per poi tuffarsi in un vertiginoso caleidoscopio strumentale, celebrando la fama del passato senza atrofizzarsi su di essa, in perfetto stile Wobbler ("Clair Obscur").

Gli stessi rimarchevoli livelli atti ad inaugurarla servono anche a chiudere un'opera per certi aspetti sorprendente, tanto debitrice dei grandi regni del primo impero progressivo quanto abile nel saper articolare un proprio riconoscibile linguaggio, scevro di quell'ampollosità che inchioda la maggior parte delle realtà melodiche più recenti. «Dunque, se mai c'è una Città che può dirsi superiore alle passioni, ai desideri e addirittura a sé stessa, questa è la nostra [...] E, in considerazione di ciò, non la chiameremo anche temperante?». Nel caso di "Hinterland" direi di sì. Decisamente sì.

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