"Close to the edge", "vicini al margine". Effettivamente con questo disco, gli Yes superano proprio il margine della loro creazione artistica dando alla luce uno dei grandi monumenti della storia del rock progressive.
Uscito nel 1972, a nemmeno un anno di distanza dal precedente capolavoro "Fragile", questo disco è sicuramente la prova della piena maturità artistica degli Yes. Se in "Fragile" si poteva percepire un approccio più sperimentale,sia nella ricerca dell'organicità all'interno del gruppo (testimoniata dai numerosi brani in cui sono i singoli componenti a farla da padrone), sia nella precisa identificazione del sound "Yes" all'interno del genere progressive. E per la serie "formazione che vince non si cambia", anche in "close to the edge", ritroviamo gli stessi componenti che avevano dato vita al disco precedente; il batterista Bill Bruford approderà alla corte dei King Crimson solo l'anno successivo.
Il tema centrale del disco stavolta non è più naturale o cosmologico come in "Fragile", ma abbraccia argomenti decisamente più filosofici e spirituali imbevuti di cultura orientale. Lo stesso titolo del disco, come spiegato in citazioni enciclopediche, si riferisce al Siddharta di Hesse, che si sveglia sul bordo del fiume,rappresentante le vie del suo spirito. La bellissima (ma a mio parere non il brano migliore del disco) suite, "Close to the edge", che apre il disco merita un'analisi discreta delle sue quattro parti che la compongono, ma analizzarne il testo è un'operazione decisamente più complessa che non è adatta ad una recensione musicale. La prima e la seconda parte della suite, "The solid time of change" e "Total mass retain" occupano i primi otto minuti del brano, che si apre con il canto degli uccelli all'interno di una giungla, creando immediatamente una ricca atmosfera. Dopo pochi secondi si assiste ad un'improvvisa esplosione di suoni psichedelici che procedono in un intreccio a spirale. Segue quindi il canto ritmato di Anderson fino alla fine della seconda parte. Con la terza parte "I get up, I get down" l'atmosfera si placa e il canto diviene lentamente quasi un sogno, uno stato mentale con un effetto di dissolvenza nel suono della voce. Ma la riflessione viene spezzata dal suono di un organo spettrale (che vagamente ricorda gli ELP), ed è Wakeman in questa parte del brano ("Seasons of man") che si scatena, insieme al classico intreccio corale, in un finale eccellente, cui segue di nuovo la quiete iniziale.
E come da "copione progressivo", ad un brano molto movimentato, segue la suite "And You and I", che si apre con una lenta e rilassante melodia di chitarra acustica,alla quale segue un ritmo folk-rock più incalzante. L'intermezzo è forse uno dei migliori prodotti dal genere progressive, semplicemente emozionante. Nell'ultima parte Anderson esegue un notevole esercizio di ritmica vocale sulle note della chitarra di Howe e il brano lentamente si spegne. Ma è sicuramente la terza traccia, "Siberian Khatru", a mio parere la migliore del disco, ad essere uno dei brani più trascinanti degli Yes. Brano che presenta un'impronta decisamente più blues e che grazie ad una progressiva velocizzazione da l'impressione di vivere una lunga corsa sulle distese naturali descritte nel testo. I fantastici vocalizzi corali del gruppo si sovrappongono perfettamente alla velocità della musica. L'intermezzo dominato dall'organo e dalla chitarra è epocale e dal sapore anche esso molto orientale. Poi torna la melodia principale, sempre più veloce, fino alla fine di tutto. Insomma, per me questa canzone non da semplicemente emozioni, ma crea uno stato mentale da esaurimento.
Forse questo è l'ultimo dei lavori degli Yes degno di poter entrare nell'Olimpo del progressive, di minore impatto e di qualità decisamente inferiore rispetto ai suoi predecessori saranno "Tales from topographic Oceans" e "Relayer".
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