Circa la carriera degli Yes ho un’idea tutta mia: si sarebbero tranquillamente potuti sciogliere definitivamente dopo “Big Generator” e avremmo parlato di una carriera di altissimo livello, le grandi idee sono finite lì; quello che hanno realizzato dopo suscita una serie di perplessità, la band naviga in un mare di incertezze. Non ho problemi ad apprezzare le uscite anni ’90, “Union”, “Talk”, “Open Your Eyes” e “The Ladder” sono dischi che ascolto con piacere e che sto rivalutando col tempo ma mostrano una band indecisa e confusa, che non sa se solcare i suoi cari territori classic prog anni ‘70 o continuare a mostrare l’attitudine più pop degli anni ’80; un senso di incertezza che non porta né in una direzione né nell’altra, non centra né un obiettivo né l’altro, nemmeno riesce ad essere un mix delle due cose, solo una versione annacquata e brodosa di entrambe le anime. Il nuovo millennio tuttavia ci ha portato due dischi di spessore, “Magnification” con il suo prog orchestrale e “Fly from Here” con il suo approccio quasi neo-prog moderno e vellutato; due bagliori destinati a rimanere dei casi isolati, infatti poi è arrivato il moscio e poco ispirato “Heaven & Earth” che sembrava davvero mettere la pietra tombale artistica su una band già da tempo in agonia.
Inutile dire che non ero molto fiducioso sulla buona riuscita di un nuovo album degli Yes. E invece sono stato incredibilmente smentito, “The Quest” è un disco sorprendentemente ispirato, che propone gli Yes nella loro magnificenza melodica e strumentale. Il concetto è essenzialmente uno: la band stavolta sa quello che vuole, è decisa e arriva al punto. L’album suona indubbiamente come un disco prog vecchia maniera, con tutte le caratteristiche che hanno reso noti gli Yes ma con una leggerezza e una scorrevolezza di fondo; differisce dalle pubblicazioni storiche del gruppo per diversi motivi, come ad esempio la scelta di articolare i brani in maniera moderata, senza strafare, evitando le troppe montagne russe strumentali che avevano caratterizzato lavori come “Close to the Edge” o “Relayer”, e rendendo se possibile protagonista la melodia fresca e sognante che in qualche modo è sempre appartenuta alla band. A ulteriore rinforzo e dimostrazione della componente melodica la band gioca la carta degli arrangiamenti d’archi, quegli stessi che avevano caratterizzato lavori come il già menzionato “Magnification” o lo storico ed acerbo “Time and a Word”; ancora una volta gli Yes si fanno lusingare dall’idea di combinare rock e musica sinfonica, un connubio a quanto pare dotato di un fascino intrinseco che non svanisce col tempo.
L’album si distingue per essere il primo in assoluto senza lo storico bassista Chris Squire, unico membro che finora aveva presenziato in tutti i lavori del gruppo, stroncato da una leucemia fulminante nel giugno 2015 appena un mese dopo aver comunicato al mondo la sua malattia. Lo sostituisce Billy Sherwood, che aveva già militato negli Yes sul finire degli anni ’90 seppur non nelle vesti di bassista. Billy probabilmente è conscio del fatto di avere una responsabilità enorme, non si trova lì a sostituire uno qualsiasi bensì uno dei bassisti più importanti del prog, un musicista fonte di ispirazione per chissà quanti bassisti a venire (per citarne uno famosissimo e nemmeno troppo distante nel tempo possiamo prendere Geddy Lee). La sua plettrata selvaggia manca ma Billy fa un dignitoso lavoro, suona metallico al punto giusto, non quanto Squire ma punge quel tanto che basta per farsi sentire.
Il disco è anche il secondo con il cantante Jon Davison, statunitense ex Glass Hammer. È il terzo vocalist a sostituire lo storico Jon Anderson e come i precedenti ha una voce che lo rende quasi confondibile con il membro sostituito. A volte mi chiedo come mai tutti i cantanti che vengono a cantare sotto il marchio Yes abbiano praticamente la stessa voce di Anderson; addirittura con quest’ultimo cantante hanno reso la cosa persino più palese, scegliendoselo pure con lo stesso identico nome, sembra che non sia nemmeno una coincidenza, quante probabilità c’erano di trovare un altro Jon senza H? Però alla fine penso: la musica degli Yes, con quel tipo di melodia e quel tipo di impostazione vagamente angelica… funzionerebbe con un cantante dal timbro diverso?
Veniamo ora ai brani. Le tracce che rendono meglio sono quelle più lunghe ed elaborate, perché sono nel DNA degli Yes e su queste hanno costruito la discografia migliore. Tuttavia, ripeto, hanno cercato di evitare di spingersi troppo, giusto pochi saliscendi ritmici e virtuosismo mai sfrenato, si è sempre alla ricerca del brano prog moderato, fiero delle sue radici ma fondamentalmente melodico. Il più articolato è “Leave Well Alone”, con Steve Howe protagonista: quando va in elettrico tira fuori una vena a tratti quasi funk ma non del tutto dichiarata, in acustico invece va sul classico, con arpeggi romantici vecchia scuola; meritevole di attenzione tutta la coda del brano, dove su un ripetitivo tappeto acustico Steve ricama un elaborato assolo regalando un finale intenso che mi ha perfino ricordato quello di “Starship Trooper”. La traccia d’apertura “The Ice Bridge” è senz’altro la più travolgente, è un vortice che travolge l’ascoltatore, non proprio come la centrifuga di una lavatrice ma ha comunque un bel tiro; diretta ed immediata nella prima metà, con il basso a far da traino e le tastiere di matrice AOR di Geoff Downes (al suo quarto album con gli Yes, terzo consecutivo), poi un coinvolgente botta e risposta di assoli di chitarra e tastiera. Altro highlight è “A Living Island”: parte lenta, prosegue come una rilassante canzone da viaggio accompagnata da un lieve organo, alla maniera dei Dire Straits, mentre la parte finale è un tripudio melodico dove le trame dei vari strumenti si sovrappongono alla perfezione in una sorta di ode celestiale di grande impatto.
“Dare to Know” esalta ancora una volta il lavoro di Steve Howe, con ogni probabilità il vero protagonista dell’album, alternando fraseggi più vigorosi ad altri più pacati, sia in acustico che in elettrico, in mezzo c’è una bella fiammata orchestrale. Howe protagonista anche nella lenta “Future Memories”: è il classico brano lento che serve proprio ad esaltare il chitarrista nel suo lato più intimista ed acustico; esempi simili negli Yes li troviamo in brani come “Mood for a Day”, “Masquerade” o “Solitaire”, tuttavia il brano storico che più gli somiglia è “Entangled” dei colleghi più vicini Genesis.
Il lato orchestrale trova la sua esaltazione nel brano “Minus the Man”, dove proprio attorno agli archi si costruisce il tutto, questi dominano incontrastati e dolcemente frastornanti, nemmeno i fraseggi di chitarra montati sopra riescono ad interferire sulla loro brillantezza. Gli archi si impongono anche in “The Western Edge” ma in maniera meno brillante.
Quindi è tutto un po’ un ritorno ad un certo prog sinfonico. Tuttavia gli Yes non vogliono negare di avere anche un lato più pop. Ma per focalizzarlo meglio e non confonderlo con il resto decidono di riservargli un disco tutto dedicato. Ecco così che in coda all’album vi è una sorta di EP omaggio. I tre brani di questo dischetto separato sono esempi di pop acustico estremamente elegante, sono liberi da ogni orpello ma non hanno nemmeno un’ambizione mainstream, semplicemente vogliono far vedere che la band sa farsi valere anche nella sua forma più spoglia. A dire il vero un brano molto leggero c’è anche nel disco principale, si parla di “Music to My Ears”, ma è il punto più basso dell’album: già il titolo è abbastanza pacchiano, sembra praticamente un titolo da tormentone estivo in cui il protagonista con un pezzo scarno e ballabile dichiara il proprio amore per la musica quando in realtà di musica ce n’è ben poca, ma non è certo il nostro caso; sembra voler mostrare le due anime degli Yes, quella più sinfonica e quella più diretta, ma fallisce in entrambi i tentativi, piuttosto vacuo il ritornello e non brillantissima l’apertura melodica. Morale della favola: sarebbe meglio che gli Yes lasciassero perdere l’idea di fare pop-prog, di essere in bilico fra i due generi, quando lo fanno non danno proprio il meglio, come hanno dimostrato nei lavori degli anni ’90.
In chiusura dico che è stata davvero una bella sorpresa. Pensavo che gli Yes fossero alla frutta, che per loro fosse ormai arrivato il momento dei tornei di bocce e di briscola… invece questi vecchietti dimostrano che se si mettono d’impegno possono ancora regalare cose fighe. La tocco molto piano: reputo “The Quest” il loro migliore album da quarant’anni, il migliore di tutta la produzione successiva a “Drama”. Lassù Chris Squire ne sarà orgoglioso.
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