Gli Yo La Tengo rappresentano uno dei capisaldi della musica alternativa ormai da vent'anni. Grazie alla loro espressività, al loro curriculum-vitae imparagonabile a quello di altri band della scena indie, al loro attaccamento alla genuinità pura del rock'n roll, alla loro capacità di rientrare nella scena dei novanta senza cadere nelle cazzate fatte dai vari gruppi alla vista delle banconote, sono riusciti a mantenersi la fama ottenuta da piccoli, ma memorabili capolavori accumulatisi in vent'anni di un alt-rock mai mancato di originalità.

Questi americanacci preferiscono fare rock senza fronzoli. Puro, senza tanti cazzeggi virtuosistici. Ma torniamo alle origini del gruppo di Hoboken, quell'esordio tanto spento tecnicamente, quanto accesso musicalmente parlando. "Ride the Tiger", datato 1986, è l'esordio di cui si parla, un disco tranquillo e spensierato. Un rock divertente che non va mai al di là della fisica; sobrie ballate, leggere e spensierate.

Ora non mi accingerò a riferirivi tutto di quest'album, ma soltanto i solchi memorabili dell'oggetto in discussione. Perno su cui gira tutto il disco è la duttilità di Kaplan, complessivamente l'encefalo della band, il corpo degli Yo La Tengo. Talento elevato al cubo in "The Way Some People Die"; la chitarra vaga da sola allegramente su vigorose melodie pop, mentre la voce, nè cervellotica ma neanche tanto tradizionale, che a tratti mi ricorda il Jagger di "Let It Bleed", colma al meglio il suono senza renderlo scarno. "Forest Green" ci rimanda alle origini dell'altr-rock; l'inzio tipicamente Cure (mi riferisco a "Pornography"), il crescendo vocale alla Stipe e a completare il quadretto un'avvolgente coltre psichedelica che stavolta ci accenna richiami ai Television e (per certi versi) ai P.I.L. La chitarra raggiunge il culmine artistico nell'alternative schizzato e frenetico di "The Cone of Silence" e "The Evil That Men Do"; un arrangiamento chitarristico che di certo non sarà perfetto, ma che caratterizza la genuinità artistica di Kaplan & Co. Momenti di calo si avvertono in "Big Sky", cover dei Kinks, che non mi convince. Ma se ci sono vie logorate e piene di ciottoli, ci si aprono davanti sconfinate autostrade appena asfaltate.

Basta pensare a ciò che il gruppo è in grado di fare in "The Pain of Pain" o in "The Empty Pool"; suggestione psichedelica, Meat Puppets e un briciolo di melanconia. E sentendo bene, potremmo anche affermare che certi gruppi di oggi (per dirne uno, Death Cab) non sarebbero mai esistiti senza gli Yo La Tengo. Tranquilli rock leggeri, non molto degni di nota, lasciano spazio agli sperimentalismi noise di "Screaming Dead Baloons", intervallati da grandi muri allucinogeni; un basso particolarmente incisivo e un sound indeciso tra paura e rabbia. "Living The Country", con una chitarra tipicamente Nick Drake, intarsia un piccolo ciondolo con un pietra colorita firmata Kaplan, concludendo il primo capitolo degli amici di Hoboken.

 Un talento che qua non è disteso al meglio, ma che si vede a occhio nudo. Potenzialità e poliedricità mai espressa del tutto fino al capolavoro, datato 1997, almeno per quanto mi riguarda.

 Yo La Tengo. E bravo Kaplan. Fly out.

Carico i commenti... con calma