É come un'emicrania.

Nasce dal silenzio, come un qualcosa che viene da lontano e che lentamente, inesorabilmente, si fa sempre più intenso, sempre più presente, sempre più pesante.

È acid doom nella sua forma più disperata: chitarre distorte in apparente stasi ipnotica, ciniche nella loro esasperante indolenza, monumentali nella loro pesantezza, che deflagrano al rallentatore, come se il tempo, intirizzito dal freddo cosmico, scorresse più lentamente. È una psichedelia nera e vischiosa come la pece, che non ti vuol far viaggiare, alleggerirti i sensi e condurti in un posto più bello e più colorato, ma tenerti la testa schiacciata contro una parete e premere forte, sempre più forte, farti trattenere il respiro fino a scioglierti i polmoni come lumache nel sale.

Sono sussurri che diventano grida, è una voce che ti accoglie infida e rancorosa come il verso di un animale in gabbia che si morde la lingua per trattenere la rabbia: se ne sta nascosta da qualche parte, là fuori, nel nero interplanetario, dondolando su linee vocali ipnotiche simili a nenie malate. Finché all'improvviso, quando meno te lo aspetti, salta fuori dalla sua tana, divarica le fauci e ti inghiotte col ruggire di un growl profondo, quasi un conato di vomito, distorto e violento.

Pubblicato nel 2003, a solo un anno di distanza dall'ottimo esordio "Elaboration Of Carbon", "Catharsis" è probabilmente rimasto l'apice della produzione del terzetto di Portland, capitanato da Mike Scheidt (chitarra e voce), in questo disco affiancato dal ciccio giappo Isamu Sato (basso) e dal gigante fricchettone Gabe Morely (batteria).

Tre canzoni per oltre cinquanta minuti di musica cosmica e minacciosa, colonna sonora di un incubo lovecraftiano, delle visioni apocalittiche di una mente malata. Musica costruita su arpeggi tanto languidi e minimali, quanto sinistri, ostili, su pochi accordi deformati dai wah wah, ripetuti sino allo sfinimento, poche note che paiono doversi spegnere di morte naturale fino a confondersi col silenzio e che invece deflagrano in distorsioni rabbiose, improvvise, inaspettate (l'iniziale "Aeons" - 18:10 e la conclusiva title track - 23:39). Unica concessione al groove, la centrale "Ether" (7:16): cuore pulsante del chaos strisciante evocato dal terzetto, rutilante e mastodontico up-tempo hippie-stoner da headbanging furioso, fatto di adrenalina e urla sgraziate e nasali di una specie di chimera, tra Ozzy, Plant e Mustaine, imprigionata in una tuta da astronauta.

Musica malata, in grado di evocare oblii interdimensionali, odissee spaziali, stati d'ansia che paiono non dovere avere fine. Musica dolente e dolorosa che ti si conficca nelle tempie come una corona di spine e cavi elettrici. Come un'emicrania.

"Apocalypse Never Felt So Good"

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