Dimenticate le candidature agli Oscar, dimenticate The Lobster, guardate questo film senza pregiudizi e aspettative. È qualcosa di grande, grande perché persistente, tangibile, un'esperienza che resta quasi come se lo spettatore fosse uno degli sguatteri di palazzo, un valletto magari, che sbircia tra le vicende reali con occhio curioso.

Lanthimos aveva oggettivamente spaccato i culi con l'opera del 2015. Poi ha fatto un film che non ho visto, ma che già dal titolo (Il sacrificio del cervo sacro) non si pone propriamente come qualcosa di accessibile a tutti. Ora approda al grande pubblico, apre un pertugio nel mondo delle grandi produzioni. Che poi non è propriamente così, se si guarda al budget di quindici milioni, ma sono comunque tanta roba rispetto ai soli quattro di The Lobster. In ogni caso, sta volta distribuisce Fox, il film si trova più facilmente nei multisala, ha dieci candidature alla più grande seduta di “bocchini a vicenda” dell'annata cinematografica. Quindi sì, possiamo dire che Lanthimos sta arrivando al grande pubblico.

Questa cosa inizialmente può scoraggiare, e anche dopo la visione completa de La favorita lo spettatore più esigente e scontroso potrebbe dire che “non è più il Lanthimos di una volta”. Cazzate. Bisogna prima accettare un cambio di paradigma, di stile narrativo, di densità concettuale. Non siamo più dalle parti dei paradossi corrosivi e dei giochi dialogici stranianti, la comunicazione cinematografica si fa più lineare e piana (almeno in apparenza), lo spettatore viene accompagnato con mano, ma va bene così. Va bene così perché ci vorrebbero più “kolossal” in costume come questo, più “megaproduzioni” guidate con tale accortezza da una mente autoriale finissima come quella di Lanthimos.

Un regista che tiene in mano le sue carte con una sicurezza invidiabile, che dispensa con rara organicità dettagli, visioni, dialoghi, singole parole, cicatrici, macchie di sangue, porte aperte o chiuse, corridoi, informazioni sul passato dei protagonisti, giochi di punti di vista, scarti narrativi, reticenze e disvelamenti. Per questo il film persiste, perché è un po' (un bel po') di più di quello che si capta durante la visione spensierata.

La scelta della vicenda da raccontare è straordinaria, il vero colpo di genio di questa produzione. Non serve un futuro distopico per sondare le pochezze umane, è sufficiente scavare nella "nostra" storia passata per mettere a favore di riflettori tanti, infiniti meccanismi putrescenti, che lambiscono il potere tanto quanto l'arrivismo individuale, che mettono a nudo l'inevitabile miseria umana, l'impossibilità di raggiungere davvero un appagamento nella vita. In questo, la distopia di The Lobster prosegue, ancor più radicale, con un salto all'indietro di almeno tre secoli. Qui l'amore è ancor più problematico, perché esiste quasi solo come capriccio, o come atto di prevaricazione, come forma di ricatto, sempre invischiato nelle trame di potere.

Sesso e potere sono inscindibili, e il primo è ineludibile strumento del secondo, non viene quasi mai come moto spontaneo disinteressato e quando questo accade, c'è sempre qualcuno pronto a sfruttarlo per il suo tornaconto egoistico, politico o individuale che sia. In questo Sarah e Abigail sono due declinazioni della stesa rapacità. Chi ha potere, chi ha patrimonio, chi ha la fortuna di essere uomo libero non può far altro che sacrificarne una parte per placare le sue pulsioni carnali. Chi non ha nulla di tutto questo, può solo darsi (e quindi sacrificare una parte di sè) nel tentativo (in ultima analisi vano) di affrancarsi dalla sua condizione di subalternità.

Come si può capire, un film d'epoca che tratta però gli argomenti di oggi e di domani. E toglie quel velo di vittimismo e superiorità morale al mondo femminile che tanto va di moda ultimamente. Qui le donne hanno tutto o niente, hanno da perdere e da guadagnare. Sono vittime del poker, degli uomini e delle loro insoddisfazioni, dei loro traumi, delle loro smanie. Sono nel mondo, sono parte del mondo, nel bene e nel male, esattamente come gli uomini. Ognuna deve sacrificare un pezzo di sé (o di ciò che ha) per sopravvivere al mondo o a se stessa, ma senza schematizzazioni poco sensate tra il ruolo di carnefice e quello di vittima. Ognuno è in ogni momento vittima e carnefice.

Tutto questo supportato da tre attrici in stato di grazia, musiche sottilmente ossessive, gran dispiego di inquadrature le più varie, montaggio asciutto, costumi all'altezza del compito. Insomma, Lanthimos porta avanti il suo discorso ferocemente disincantato, ma lo camuffa in una forma più facile, godibile, stratificata. Per cui forse piacerà anche al pubblico più impreparato e casuale, complici sicuramente il carisma delle attrici e la spudoratezza dei dialoghi. Il non detto sottostante però è gravido di significati “politici” molto attuali (darsi al potere per ottenere qualcosa in cambio, vi dice niente?). Ma quanti ne coglieranno la chiave di lettura?

8/10

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