Il progetto 8:58 poteva anche essere interessante sulla carta, ma probabilmente con un'esecuzione diversa. Con questi risultati forse Paul Hartnoll deve invece rivedere le proprie strategie per quella che sembra una preoccupante crisi di identità. Nessuno ha ancora capito se l'oggetto della recensione è il nuovo album degli Orbital sotto pseudonimo (anche la copertina lo ricorda) o il successore di Ideal Condition, precedente disco di Paul. Beh, tutte e due a dire il vero. Se 8:58 fosse uscito sotto il brand Orbital nessuno avrebbe avuto molto da ridire (il sound più o meno è quello), ma il lavoro avrebbe senz'altro goduto di una maggiore visibilità. Il fratello Phil non è più parte integrante del progetto Orbital, il duo si è definitivamente separato dopo la pubblicazione di Wonky, Paul prosegue quindi la carriera solista cercando di portare con sé i segni distintivi che hanno reso famoso il gruppo, cercando nel contempo un nuovo inizio. 8:58 è infatti anche il nuovo nome dell'artista.

Posticipato di diversi mesi, il lavoro consiste in soli 9 brani, di cui uno riciclato dal precedente album di Paul Hartnoll, una tracklist da anni '80 e buona parte dei restanti otto suona come idee non sempre in sintonia e con un disperato bisogno di sviluppo. Il disco parte subito bene grazie al brano omonimo strumentale, tipicamente "orbitalesco" e che riporta l'ossessione per il tempo tanto cara al duo. Chi ricorda il famoso sample preso da Star Trek di The Brown Album? "There is a theory of the Mobius, a twist in the fabric of space where times becomes a loop", iniziava in questa maniera uno dei dischi più blasonati dell'elettronica techno degli anni novanta. In questo epico richiamo siamo accompagnati dalla voce dell'attore Cillian Murphy (Sunshine), che ci racconta come la nostra esistenza sia vincolata alle lancette dell'orologio, che scorrono sempre più vorticose, consumando la nostra esistenza. A un tratto però la catena assassina viene interrotta per cinque minuti di libertà in freeform, dove le note di Hartnoll costruiscono un ammaliante affresco sonoro. Si va lentamente alla deriva con uno spirito quasi fanciullesco, accompagnati da meccanismi polverosi e magici in un continuo crescendo. Magistrale in questo brano la composizione imprevedibile e lo stratagemma utilizzato per la parte finale, che assume toni sempre più cupi e inquietanti, come un crudele richiamo alla realtà. Il pezzo è quasi perfetto e sicuramente alza parecchio l'aspettativa per i successivi, bisogna arrivare alla fine del disco per trovare qualcosa di paragonabile, ma mai all'altezza.

Il resto di 8:58 non si può considerare scadente, ma neanche particolarmente memorabile, essendo composto da brani relativamente brevi e non particolarmente complessi. Please è - come detto - un remix di un vecchio brano del precedente album, arrangiato con uno stile più nelle corde di quello che ha contraddistinto il marchio Orbital negli anni passati. Si avvale anche di una collaborazione prestigiosa grazie alla voce di Robert Smith dei Cure, a suo agio in ambiti molto lontani dai suoi, ma il pezzo sembra proprio fuori luogo e non porta dove sarebbe stato auspicabile trovarsi dopo il precedente, suonando piuttosto come un filler per raggiungere la forma album. Non sono stratagemmi che apprezzo particolarmente in una nuova release. Va meglio con la successiva The Past Now, salsa folk che sfrutta sapientemente la voce di Lisa Knapp, in versione "bjorkiana". Qui si sente che è stata riversata più cura e tempo nella realizzazione, il brano è ben eseguito, coinvolgente e spinto da una linea di basso elettronica e suggestiva; forse sarebbe stato apprezzabile qualche variazione a livello compositivo, ma si arriva alla conclusione sostanzialmente soddisfatti. Villain è ancora un numero vocale, interamente pop e dominato dalla voce di Ed Harcourt, che lascia poco escluso un refrain interessante; ma il brano appare francamente ripetitivo e col fiato corto, come testimonia anche la durata molto esigua. Un esperimento confuso in una parte importante del disco e la situazione non migliora con The Clock, che ricicla la stessa linea vocale di Murphy già sentita in apertura, ma stavolta su una base poco più che ornamentale. Nonostante la bassline energica il brano non va da nessuna parte, mettendo in scena un palco caotico dove non sono noti i protagonisti. Detto in una sola parola: filler. A Forest riporta il mood sui binari giusti, grazie a uno sviluppo delicato e ben congegnato che mantiene vivo l'interesse dell'ascoltatore. Le due voci femminili sono affascinanti (cantano le Unthanks) e ritornano venature folk e più affini alla musica pop, tuttavia una chiusura ritmica di buon impatto conferisce quella carica energica che non guasta. Quasi come un naturale prosieguo, Broken Up porta verso territori più elettronici, con un andamento gentile e rilassante, la frenesia è infatti tutta in mano a Nearly There e la sua furiosa corsa techno. Il pezzo rimanda chiaramente all'era di Yellow e Brown album degli Orbital, è veloce e dinamico, ma gli originali sinceramente erano un'altra cosa, la sensazione è che l'età avanzata non aiuti a ripercorrere lucidamente quel periodo senza cadere nella trappola del posticcio.

Cemetery è il brano conclusivo che sfrutta nella prima parte la voce della giovanissima Fable, cantante inglese emergente che riesce a interpretare splendidamente una struttura pop sofisticata, ma la lunga durata suggerisce sorprese. Paul Hartnoll riesce a inserire già a metà strada azzeccate linee di synth, funzionali non solo come intermezzo strumentale, ma come un avvertimento di quello che ci aspetterà alla fine. Il blocco conclusivo è infatti interamente in mano ai sintetizzatori, che sfruttano la voce come uno strumento in perfetta armonia con le piste che si sovrappongono vorticose. Siamo in pieno territorio Orbital e nessuno meglio di Paul è in grado di gestirlo, il gioco è sicuro e il risultato garantito. Torna quasi alla mente la complessità di lavori come Out There Somewhere Part 2 dal leggendario In Sides, uno degli album più amati del duo e che sostanzialmente ci ricorda per qualche motivo stiamo ascoltando questo disco. Peccato per alcuni errori tecnici nella programmazione, riscontrabili a un attento ascolto e che forse tradiscono una lavorazione frettolosa. Ai tempi dell'analogico queste sbavature esaltavano, oggi no. A cavallo tra un nuovo album solista di Hartnoll e una tipica release Orbital, 8:58 è comunque un lavoro che merita di essere ascoltato da parte degli appassionati. Di questi tempi di aridità creativa, specie nella edm, ci accontentiamo di poco, ma in generale l'opera sembra approssimativa in alcune parti, e davvero esageratamente limitata in contenuti, si poteva fare qualcosa di più... o forse sarebbe il caso di attaccare definitivamente gli scarpini al chiodo?

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