Il "fascino del vuoto beatifico" è ad oggi lo slogan preferito degli ammerigani Ævangelist, presi come sono a scandagliare le sonorità più abiette concepibili tra le varie compagini del metal estremo. (In)giustamente accolti dalla critica con più di qualche perplessità, e pure additati dal pubblico navigato perché troppo pretenziosi e animati da un oltranzismo fuori giri, il loro percorso si svincola in tutta fretta dai paradigmi del death metal (De Masticatione Mortuorum In Tumulis, debutto folgorante del 2012) per plasmare una materia deforme, forse vicina alle ramificazioni "post-", ma sempre più difficile da incasellare. Percorso che, peraltro, inizia a macchiarsi tanto di cacofonia gratuita quanto di autoreferenzialità: l'accoppiata degenere di Matron Thorn e Ascaris non scende a compromessi, se ne infischia dei ca$h e preferisce rimanere una realtà di cvlto per chi si fa voluttuosamente fottere buona parte delle sinapsi cerebrali ascoltando i loro dischi per intero. La storia rimane sempre quella: o lasci, o prendi (nel senso più scabroso del termine). Io l'ho preso tutto.
Soffermandoci sull'ultimo (2015) aborto dei due evangelisti, quindi, possiamo constatare qualche continuità col precedente Writhes in the Murk (2014): da una parte c'è il distacco dall'esordio spakkkaossa del 2012 e (soprattutto) dalle escandescenze apocalittiche di Omen Ex Simulacra (2013); dall'altra abbiamo un rifferama spesso ipnotico e affossante, che sacrifica buona parte della violenza a favore di una visionarietà ancor più sinistra. Aberrazione, irrazionalità, disperazione e iconoclastia restano le fide compagne di viaggio, ma diverso è il modo di esprimerle: la sensazione è che, dopo aver torreggiato e saccheggiato l'Empireo con l'esageratissimo Omen Ex Simulacra, gli Ævangelist siano precipitati per abbandonarsi ai flutti impetuosi di qualche fiume infernale (dell'oblìo, dell'odio, dei lamenti, a discrezione del malcapitato), e se ne pascono oltremodo.
Posto che non sono mai stati il classico gruppo focalizzato su "il riff", ma piuttosto degli ottimi alchimisti di un suono che richiede anzitutto immersione e pazienza, in Enthrall to the Void of Bliss si può rinvenire comunque un discreto numero di spunti melodici, e per giunta intelligibili; ammesso che si possa parlare di melodia. Per esempio, fin dai primi secondi dell'opener Arcanæ Manifestia ci tocca trivellarci le coclee con un magnifico tremolo agonizzante, protratto ad nauseam per lunghi estenuanti minuti finché il confine tra estasi mistica e masochismo aurale si fa molto labile. A peggiorare le cose ci si mette anche una new-entry nell'arsenale del giovine polistrumentista Matron, che ora si cimenta strimpellando quella che parrebbe un'arpa elettrica distorta e scordata. Inutile dire che il coefficiente cacofonia è massimizzato a livelli grotteschi, tanto che, giunti ai 30 secondi di rutto maialesco in chiusura del brano, vien da chiedersi se 'sti qui non ci stiano prendendo un po' per il culo. (Sì, ma anche no.)
Cloister of the Temple of Death, come tutto l'album, si presenta (stranamente) ben studiato in fase di songwriting: gli Ævangelist alternano con accortezza ferocia gratuita, assoli febbricitanti e rallentamenti catatonici, il tutto accompagnato da quella cazzo di arpa che si insinua obliqua e martellante in ogni dove. Le concitate litanie vocali palesano poi una religiosità morbosa, già suggerita dal nome della band stessa: evangelista di non-si-sa-cosa-ma-di-sicuro-non-promette-bene. Il resto del repertorio vocale, ricco di growl catacombali, urla belluine e stupri laringei di varia entità, fa il suo sporchissimo lavoro come da abitudine.
Gatekeeper's Scroll prosegue la scia di veleno e vaneggiamenti, sfoderando però dei riff ancora più ficcanti e persino orecchiabili; ma ci pensa Alchemy a interrompere per qualche istante lo stillicidio, grazie a un'azzeccatissima parentesi elettro-ritual-ambient che pare riecheggiare gli Ulver più cupi e minimali: "souls like water", declama ossessivamente Ascaris nell'unico momento di apparente lucidità. E se è vero che le spire serpentine di Levitating Stones e soprattutto la conclusiva Meditation of Transcendental Evil tradiscono, ancora una volta, un fascino perverso per i ritualismi (un bel mix orgiastico di lamenti femminili), l'antimelodia dagli sgradevoli effetti emetici raggiunge forse l'apice con Emanation, che sfora senza riguardi nel cattivo gusto. Mi perdonerete l'accostamento improprio, ma a un certo punto del brano scoppia un macello incomprensibile e, tra le varie cose, mi è sembrato che Scott Walker sotto metanfetamine facesse capolino in studio (nel caso, spero sia sopravvissuto).
Che siano gli occasionali richiami al death, le lente reiterazioni doomeggianti, i flirt con le dissonanze post-black, o anche le incursioni elettroniche (vedasi il recente split con Blut Aus Nord), l'interpretazione del metallo estremo degli Ævangelist resta nel bene e nel male unica, personalissima, ormai forte di una cifra stilistica riconoscibile (almeno per chi in questo genere ci sguazza a meraviglia). E il loro immaginario si fa via via più ambiguo, in continuo capovolgimento; un immaginario in cui i confini svaniscono e gli opposti si contaminano tra loro: dolore e godimento, estasi e tormento, vette vertiginose e abissi insondabili, assoluta devozione e immane presa di culo. Forse è ancora presto per dirlo, ma credo (temo, spero) che negli anni a venire faranno ancora parlare di loro.
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