Lo avrete già capito dal voto, quindi non ci giro intorno: “The Serpent & the Sphere” non è quel capolavoro che noi tutti speravamo di ascoltare. E’ però (lo dico subito) un gran bell’album, e con esso gli Agalloch si confermano una band consapevole del proprio ruolo di protagonista entro l’odierno panorama del metal estremo.

Cosa aspettarsi, del resto, dal quinto full-lenght di una band che ha saputo riscrivere i confini del black-metal e che ad ogni uscita discografica (EP compresi) ha sempre saputo stupire? Se con il folgorante debutto “Pale Folklore”, facendo leva sugli insegnamenti dei vari illuminati Opeth, Ulver e Katatonia, la formazione di Portland seppe mettere a punto una personalissima formula fatta di black-metal, doom, dark-wave e folk, con il bellissimo “The Mantle” spiazzarono tutti quanti espandendo ulteriormente il loro suono, proiettandolo oltre gli orizzonti del post-rock strumentale e del neo-folk. E cosa dire del successivo stupendo “Ashes Against the Grain”?, probabilmente il loro capolavoro formale, dove tutte le strade fino ad allora tentate trovarono una felice sintesi sotto l’egida di un emozionante post-metal oramai lontano da ogni possibile definizione. E se qualcuno ha storto il naso innanzi al brusco dietro-front verso i lidi del black metal più feroce operato con “Marrow of the Spirit”, come negare la vitalità di musicisti che ancora una volta seppero sorprendere i propri fan e trovare, fra l’altro, ispirazione ed energie per la stesura di quella “Black Lake Niostang”, suite di oltre diciassette minuti che probabilmente rimane ad oggi il momento più alto della loro carriera?

“The Serpent & the Sphere”, lungi dal portare scompiglio nel sound dei nostri, e a scapito delle altissime aspettative nutrite nei loro confronti, appartiene alla categoria degli “album di riepilogo”, rappresentando per la band una fase di riflessione ed assestamento, fisiologicamente comprensibile dopo trascorsi così illustri. La band trova quindi nuova ispirazione e linfa vitale nel proprio passato, e al cospetto del vasto panorama di sonorità esplorate (dal dark-folk di “The Mantle”, alle recrudescenze black metal di “Marrow of the Spirit”) opta per un approccio un po’ “democristiano”, imboccando la famosa via di mezzo che non vorrebbe scontentare nessuno, ma che a conti fatti dissemina delusione un po’ dappertutto. E lo fa guardando principalmente al debutto, giocando quindi sulla compenetrazione fra melodia e violenza di cui gli Agalloch sono maestri indiscussi, ma senza trascurare frammenti ed idee sviluppati negli altri lavori: è quel “guardarsi indietro con consapevolezza” che permette alla band  di uscire dall’empasse (spero temporanea) con grande dignità, con molto mestiere, e di allestire, senza fallo, e con risultati impensabili per il 90% delle band in circolazione, un prodotto estremamente personale, curato nei dettagli, splendidamente bilanciato nelle sue componenti, nei suoi contrasti, nel succedersi dei pieni e dei vuoti. Dove ogni cosa, però, è noiosamente al suo posto.  

Se da un punto di vista stilistico “The Serpent & the Sphere” non offre grandi novità, è sul versante concettuale che l’album acquisisce una propria identità: un tratto distintivo che lo rende comunque diverso dagli altri, laddove nella discografia degli Agalloch ogni uscita fa storia a sé (sbagliato, sbagliatissimo quindi fare dei raffronti). L’opera si pone infatti fin dall’inizio su un piano maggiormente astratto che conferisce alla musica ivi contenuta un’accezione più universale (rispetto alla dimensione intima e personale ed allo sforzo di introspezione da cui sembravano scaturire i componimenti del passato) e, passatemi il termine, più filosofica, come se si intendesse procedere per argomenti, invece che per immagini. L’album assume quindi le fattezze di un percorso di ricerca, volto alla conoscenza ed alla consapevolezza ed alla crescita/elevazione spirituale, dallo strisciare viscido (delle serpi), potremmo dire, alle vastità del firmamento (la sfera): un iter che si confronta/scontra con i temi della circolarità del tempo e, sebbene non sia espressamente citato, probabilmente con l’eterno ritorno nietzschano. Da qui l’idea di una struttura circolare (scandita da intermezzi strumentali che fungono da pietre miliari) e di una disposizione delle tracce che segue la dialettica espressa dal concept (le stesse grida strazianti, gli stessi singulti e sussurri di John Haughm si pongono a contorno didascalico delle osservazioni messe in musica, prima ancora che costituire l'espressione di sentimenti). Per questi motivi “The Serpent & the Sphere” suona algido, distaccato, cristallizzandosi come l’album più razionale e ragionato degli Agalloch, da sempre portatori di una esperienza musicale emozionante, oserei dire incandescente.

Questa freddezza si percepisce fin dalle prime reiterate (tedianti) note della lunghissima suite “Birth and Death of the Pillars of Creation”, vero rito d’iniziazione e portatrice, suo malgrado, di quella maestosità/pomposità che risulta obbligatoria per aprire degnamente un concept così ambizioso. Nei suoi dieci minuti sa offrirci gli scenari più disparati, ma quel perfetto succedersi di ambientazioni suona troppo come un qualcosa definito a tavolino: a partire dall’irrompere degli imponenti riff di matrice doom (che ricordano la monumentalità dei Tiamat più visionari), all’avvento delle chitarre folk, che con tempismo cronometrico si erano aggiunte, e che per qualche istante vengono lasciate da sole, per poi essere fagocitate nuovamente dall’elettricità ed alle sontuose movenze di un brano che, nel suo incedere epico ed al contempo tragico, ha un che di Bathory. Ebbene, signori miei, tutto questo puzza tremendamente di calcolo. E sarà proprio questo il problema cardine dell’intera operazione: quella fastidiosa sensazione che va e che viene e che non è altro che il sospetto che la band abbia deciso a priori cosa suonare e come suonarlo, senza farsi trascinare da una reale ispirazione/urgenza comunicativa. 

Senza soluzione di continuità, si materializza il brano successivo, “(serpent caput)”, un sognante interludio folk in cui le corde della chitarra classica, pizzicate con estrema bravura, tratteggiano luoghi fuori dal tempo, quegli scenari boschivi, notturni, quei paesaggi dell’anima che non possono mancare in un album degli Agalloch (peccato scoprire che il brano, insieme ai due gemelli che incontreremo successivamente, è a carico di un elemento esterno alla band, tale N. Larochette).
I tre brani che seguono (“The Astral Dialogue”, Dark Matter Gods” e “Celestial Effegy”)  costituiscono il corpo “dinamico” dell’album, un trittico di brani che, in minutaggi tutto sommato contenuti (almeno per quanto riguarda gli standard della band) sanno ben rappresentare l’eclettismo, la coesione e la maturità compositiva dei Nostri: in questi brani verrà sicuramente espresso il lato più aggressivo degli Agalloch, senza comunque rinunciare a commoventi intrecci chitarristici, alle suggestioni mutuate dall’universo darkwave e a quei guizzi d'autore che hanno reso gli Agalloch unici ed inimitabili.

In questo tripudio di note e di cambi di tempo, si certifica da un lato il totale accantonamento della voce pulita (impiegata esclusivamente, sotto forma di cori, come accompagnamento di secondo/terzo piano); dall’altro la prova non perfettamente a fuoco del pur poliedrico Aesop Dekker: la mia impressione è che il batterista non abbia ancora chiaro in testa come debba andare una canzone degli Agalloch, e non ne faccio una questione di mera tecnica, ma di sensibilità; semplicemente il suo drumming mi sembra il più delle volte fuori luogo, o troppo lento, o troppo veloce, o troppo brusco nei cambi di tempo, o inutilmente trita-tutto con quella cazzo di doppia-cassa lanciata alla velocità della luce, facendo quindi rimpiangere sia la rozza efficacia di Haughm, quando ad inizio carriera, da dilettante ma con un cuore grande quanto il mondo intero, si dilettava dietro alle pelli, sia il dinamismo e la fluidità dell’ottimo Chris Green, uscito dal gruppo all’indomani di “Ashes Against the Grain”.

Il secondo intermezzo “Cor Serpentis (the sphere)” è un altro momento di grande suggestione che funge da preludio alla porzione finale dell’album, composta dalla scialba “Vales Beyond dimension” (che porta avanti quanto detto dai tre brani prima descritti, ma con minore convinzione ed incisività) e dagli stupendi dodici minuti di “Plateau of the Ages”: in essa ritroviamo finalmente gli Agalloch che tanto ci erano mancati, gli Agalloch veri, quelli liberi, aerei, “espansi”, quelli dell’”infinite post-rock ascensionale” che ce li ha fatti conoscere ed amare. Seppur non all’altezza di episodi analoghi rintracciabili nella discografia passata, questo lungo brano strumentale descrive alla perfezione quell’esperienza astrale, al di fuori del tempo e dello spazio, che è lo zenit emotivo dell’opera e il momento concettualmente più significativo. Ma soprattutto ha il merito di ricollocare la band all’interno dei ranghi ad essa maggiormente consoni, ossia quelli di una musica emozionante tout-court, spogliandola finalmente di quella cattiveria (ostentata/ponderata) che ha finito per prevalere, probabilmente per rappresentare la lotta cruenta (interiore) che il concept ha messo in scena nella prima parte dell’album.

Con l’outro “(serpens cauda)” la coda del serpente si ricongiunge alla sua testa, incoronata da quel folk magico che aveva già brillato nei due episodi precedenti. L’impressione che rimane addosso, con l’eco dell’ultima nota, è quella di aver assistito ad un grande spettacolo: all’ennesimo grande album degli Agalloch, opera di certo non scevra da critiche, ma che nel complesso porta con sé più pregi che difetti.  Un album che ci va più che bene, oggi, ammesso che in futuro la band tornerà a stupirci con lavori all’altezza della sua fama.

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