Il termine "family" presente nel nome, è più che un indizio per capire l'approccio che questi 4 barbuti ragazzotti di origine norvegese hanno verso la musica. Una musica vissuta innanzitutto come esperienza comunitaria, intima, corale, suonata con fervente passione, quasi a lambire l'inno sacro. I ricordi possono correre indietro alle molteplici incarnazioni di questa visione "familiare" della musica, in forma di comunità hippie come Grateful Dead, Incredibile String Band o ensemble artistici aperti come Amon Düül e Amon Düül II, esperimenti ormai appartenenti ad un'epoca "altra" e difficilmente ripetibile oggigiorno senza i dovuti "se" e "ma" del caso.
Gli Akron/Family non pretendono di proporsi come odierni epigoni delle succitate formazioni, scrivono canzoni in maniera autoreferenziale e quasi privata, riuscendo ad amalgamare influenze e visioni spesso distanti fra loro, rendendoli di difficile classificazione all’ interno della scena underground statunitense. In questo split album con il patron della Young God Records (ed ex Swans) Michael Gira, i nostri riassumono, in soli sette brani, quasi 40 anni di musica americana con lodevole maestria e sfrontato coraggio giovanile. Se l'iniziale "Awake" presagisce paesaggi fra l'agreste e il bucolico, la successiva "Moment" meglio descrive la portata della loro visione musicale: 1' e rotti di improvvisazione noise furiosa che si apre ad uno stomp corale condotto da un basso ultra distorto, cantato con fervore e devozione religiosa e che si conclude con una allegra ballata country. Ma le gioie non finiscono qui: la lunga "Future Myth" centrifuga i Byrds di 5th Dimension con certi Mercury Rev, cantati a cappella e singulti di elettronica povera; in "Dylan Part II" sembra di sentire il Thom Yorke più introspettivo alle prese con un blues zeppeliniano, lirico e sofferto; "Raising The Sparks" rievoca i californiani Mad River accompagnandoli in una danza tribale, fra urla sguaiate, raga indiani e cori alla Beach Boys. I brani a nome Angels Of Light (in cui i nostri suonano comunque, lasciando a Gira voce e chitarra) si attestano su territori formalmente meno dirompenti, fra riletture del Dylan acustico ("I Pity The Poor Immigrant"), ninna-nanne stucchevoli ("One For Hope"), senza però scordarsi di colpire inaspettatamente allo stomaco con clasutrofobiche murder ballads ("The Provider") e inquietanti coretti alla Rosemary’s Baby ("Come For My Woman").
Musica per organi (auditivi) caldi.
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