Scrivo questa breve recensione con un sorrisetto furbo e un po' mariuolo stampato in faccia; no, non ho mai ascoltato nulla degli album di Alan Sorrenti precedenti a questo (forse un giorno lo farò, forse no, dipende tutto dal mio spirito volubile) e, si, intonso da ogni possibile preconcetto di qualsivoglia natura, reputo "Figli delle stelle" un gran bel gioiellino vintage. L'ha fatto solo per soldi? Glie l'ha imposto la casa discografica? Forse, probabilmente. L'ha fatto bene? Mi sembra proprio di si, e allora le prime due cose direi che in fondo lasciano il tempo che trovano.

A me il pop italiano piace quando è italiano nello stile e non solo nella lingua dei testi, e con "Figli delle stelle" questo poliedrico artista gallese-napoletano, per l'occasione munito di un impeccabile paio di baffetti da sparviero, ha saputo rielaborare le sonorità della disco di allora in modo molto elegante e intelligente. La strumentazione "portante" in fondo rimane quella tipicamente rock: chitarra, basso e batteria + synths leggeri, senza il tripudio di fiati, orchestrazioni, cori e sovraincisioni varie dei contemporanei Bee Gees o della "scuola" afroamericana, e poi c'è la voce fantastica di Alan, una voce stilosa; leggera e gradevole come un buon calice di spumantino frizzante fresco di frigobar. Una languida, bellissima ma ingannevole intro di piano, poi irrompe quell'inconfondibile giro di chitarra e si è già perfettamente calati nell'atmosfera, viene voglia di impomatarsi i capelli, infilarsi una bella camicia sgargiante e un paio di jeans eleganti, lasciarsi andare al flusso di una notte dionisiaca, ma senza mai perdere lo stile. Grandissimo affabulatore sto Alan Sorrenti, prendete un pezzo a tema prettamente scopereccio come "Un incontro in ascensore", lui ci ricama sopra, lo racconta con una nonchalance quasi disarmante, vale anche per "Donna Luna", ma qui i contorni si fanno più duplici, ambigui: questo languido tripudio di sensualità, con tanto di assolo di sax/sex, allude senza dubbio ad altri piaceri, più artificiali, proprio come nel caso della titletrack.

Insomma, "Figli delle stelle" è tutto uno sciorinare di finezze, ad esempio le suggestioni brasiliane di "Casablanca" (fa strano detto così, ma tant'è...), oppure l'uso del dialetto napoletano nella languida e vellutatissima "Passione", uno dei pezzi più caratteristici e affascinanti del disco grazie anche a questo "vezzo", a questo tocco personale; "C'è sempre musica nell'aria" è un'altra piacevole sorpresa, un pezzo per piano e chitarra acustica di grande classe con finale in crescendo, e ci sta dentro che è un piacere. Unica nota stonata "Tu sei un'aquila e vai", un funk abbastanza opaco e poco personale inutilmente dilatato ad otto minuti di durata; una conclusione che lascia un po' di amaro in bocca, peccato davvero, si poteva azzardare qualcosa di molto più ambizioso ed in linea con il resto dell'album, sarebbe stata la perfezione.

Tuttavia, il succo del discorso non cambia, rinnovarsi a volte è l'unico modo per sopravvivere, lo insegnano i Bee Gees con "Main Course", seguire le mode fa parte del gioco, e Alan Sorrenti ha giocato veramente bene: lui ha fatto "Figli delle stelle", i Queen "Hot Space", e direi proprio che non c'è partita, Alan stravince per manifesta superiorità. Ha fatto le cose per bene, da vero professionista, Mercury e soci si sono arrabattati da dilettanti, con risultati a tratti anche buoni ma, appunto, dilettanteschi. All'epoca qualcuno gli avrà, metaforicamente o meno, urlato con sdegno "venduto, venduto!!" agitando i pugni nell'aria, io idealmente gli stringo la mano e penso che sarebbe una gran bella cosa se i "venduti" fossero tutti come lui.


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