Alcuni dischi sono come il vino; dopo l'imbottigliamento abbisognano di un buon periodo di affinamento in bottiglia per acquistare in giusto equilibrio (e per evolversi). Così può capitare di dare giudizi affrettati (positivi o negativi) su di una nuova uscita discografica. A volte serve un periodo di riposo in un luogo buio (l'Hard Disk?), lontano da orecchie indiscrete, per lasciare il tempo di "aprirsi" e poter infine comprendere un disco.
Non è di certo una regola aurea, molti album che ad un primo ascolto (ci) fanno schifo, anche dopo anni di affinamento, non cambiano. Ma a volte può accadere che un disco rinasca dalle sue stesse ceneri, regalandoci una insperata sorpresa.
Tale il percorso personale che mi ha portato prima ad incensare, poi a deprezzare, quindi a dimenticare questa terza fatica di Alexander Tucker (folk singer inglese, giovane, già collaboratore di O'Malley dei Sunn O))), pittore neo-primitivista alla Banhart e autore delle sue stesse copertine).
Disco facilmente etichettabile, sia come derivativo e noioso, che come pregiato esempio di folk psichedelico declinato all'attualità del drone. La verità, come si sa, è sempre nel mezzo.
Buon disco, dunque, che porta avanti un discorso assolutamente personale, ma che, come succedeva nei due precedenti, perdeva il confronto coi grossi calibri in circolazione (Ben Chasny su tutti). Un po' troppo uguale a se stesso Alexander, cultore di un folk psichedelico fatto di "fantasmi al pascolo" nelle brughiere ("Poltergeist Grazing"), declinato nella sua accezione più ipnotica e mantrica (emblematiche in tal senso l'andamento orientaleggiante di "Omnibaron" e l'arpeggio ciclico della finale "Here"), ma penalizzato da un timbro vocale monotono e monotonale ("Veins To The Sky" sentita una volta è bellissima, poi arriverete ad odiarla). Più interessanti le (piccole) deviazioni dalla strada sinora ampiamente battuta: "Bell Jars", percorsa dalla solita atmosfera da pericolo imminente, ma con uno xilofono che dà un che di meno cupo al tutto; il quasi ambient folk di "Energy For Dead Plants", che fa riprendere fiato e speranze dopo la cupezza della prima parte del disco.
Un artista interessante Tucker, dalle belle speranze, a patto che cerchi di variare il registro e le atmosfere, un pelino oltre la sottile soglia fra il sonno comatoso e la veglia acida.
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