Tra tutti i dischi del loro repertorio a cui potevano ispirarsi per la realizzazione di nuovo materiale, gli Anathema hanno scelto proprio quello più bistrattato dai seguaci e dalla band stessa, nonché uno dei miei preferiti di sempre: A Fine Day To Exit, risalente a ben sedici anni fa.

Mi si conceda una digressione. Per me non è difficile capire i motivi per cui sia stato così poco compreso: ormai espulsi gli umori doom ereditati da Duncan Patterson, e abbandonata in toto l'etichetta di gruppo metallaro, il balzo verso una forma moderna e ben collaudata di alternative rock doveva essere stato un duro colpo per i fan lungocriniti. Eppure, l'alleggerimento dei suoni e le composizioni ariose e ricche di dettagli erano solo una facciata dietro la quale si celava un'inquietudine che mai era stata tanto sottile e latente nella musica degli Anathema. Un salto di qualità che si rifletteva anche nei testi ermetici, psicotici, visionari, dei veri e propri sfoghi scritti di getto da una mente sconvolta. Da qualunque angolazione lo consideri, il mio giudizio non cambia e non mi vergogno di esprimerlo: A Fine Day to Exit è il capolavoro perduto degli Anathema, senza nulla togliere al resto della discografia e con tutto il rispetto per la band, sempre un po' restia a riproporlo sul palco.

Ma torniamo ai giorni nostri. Cosa sia successo con esattezza durante la lunga pausa dopo A Natural Disaster lo sanno solo gli Anathema; quel che è certo è che Danny Cavanagh & co. hanno maturato una nuova visione del mondo, ora fatto di amore universale, nostalgia, luce, sogni, stelle, occhi che brillano e via dicendo. Detta così, non renderei giustizia alla sequela di buoni (quando non ottimi) album pubblicati dal 2010, e difatti We're Here Because We're Here, pur nel suo elevato indice glicemico, rimane una delle loro prove migliori e la vetta di questo nuovo corso. Notevoli anche i successivi Weather Systems (2012) e Distant Satellites (2014), che però talvolta viaggiano pericolosamente lungo i confini della ridondanza: ebbene, come proseguire?

La risposta, a mio avviso insoddisfacente, arriva con The Optimist, concepito come una sorta di seguito (perlomeno concettuale) della vicenda irrisolta di A Fine Day To Exit: il protagonista, cercando di fuggire da chissà quale mostro interiore, è sceso dalla macchina e, spogliatosi, si è gettato nell'oceano per porre fine alla sua esistenza. O forse no. Sarà sopravvissuto al collasso psichico? I fanali spianati nella copertina minimale del nuovo album suggeriscono che non è finita lì, il nostro anonimo personaggio ce l'ha fatta e continua il suo vagabondaggio, seppure con un altro stato d'animo. E infatti la storia ricomincia dall'intro che riporta le coordinate di Silver Strand State Beach, il luogo del misfatto...

I beat nervosi e gli arpeggi ostinati di Leaving It Behind lasciano intravedere qualche novità: Distant Satellites si era concluso con una generosa (e meravigliosa) iniezione di elettronica, quindi perché non continuare su quella scia, magari calcando la mano? Il brano d'apertura sembra appunto accennarlo; peccato che stavolta la melodia fatichi a decollare, complice un Vincent al microfono più monocorde del previsto. Endless Ways alza decisamente i toni e si conferma il pezzo vincente del lotto: quello che potrebbe sembrare l'ennesimo lentone romantico cantato con consueta grazia da Lee Douglas sfocia presto in un'esplosione elettrizzante, ripercorrendo i numerosi climax degli album recenti senza comunque deludere.

Gli ultimi sussulti, purtroppo, ce li regala la title-track. Pianoforte, duetto tra Lee e Vincent, archi a profusione (argh!), ripartenza finale, assolo semplice e dal respiro epico: la formula sa di già sentito, ma un tale sfoggio di classe potrebbe pure essere sufficiente a reggere il gioco se solo da qui in poi non si assistesse a un lento e inesorabile peggioramento. La strumentale San Francisco riprende la melodia di Endless Ways e abbozza il panorama notturno di una metropoli in fermento, mentre la sua compagna semi-strumentale Springfield, arrangiata con cura certosina, batte ancora la strada delle impennate emotive: scivolano via gradevoli e garbate, a mo' di colonna sonora da road movie, ma il quid inizia a latitare.

Di nuovo i sussurri leziosi della Douglas in Ghosts, altra ballatina dream-pop riciclata ad nauseam e per giunta con un ritornello tanto incantevole quanto fiacco; brani del genere ne hanno già scritti ad oltranza, e di gran lunga più memorabili. E quando invece gli Anathema provano anche solo per un momento a cambiare le carte in tavola, il risultato è posticcio: Close Your Eyes, cantata dalla sempre più ingombrante Lee, pare una rivisitazione jazzata di The Lost Child, ma l'espediente di accentuare l'atmosfera umbratile del disco con una spruzzata di noir finisce per essere artificioso e stereotipato, oltre che fuori contesto.

E in tutto questo, dov'è finito il buon Vincent? Ricompare in Can't Let Go, l'immancabile virata rockettara che, tuttavia, suona come la brutta copia della brutta copia della già poco entusiasmante Get Off, Get Out; e l'interpretazione vocale del nostro, di solito capace di sbriciolare il cuore specialmente nei momenti intimisti, continua ad essere evanescente e lontana dai suoi standard. Come del resto sono evanescenti e ripetitivi i testi nel corso dell'album, ed evanescente è Wildfires, che pare esistere solo in virtù del crescendo (ancora!) finale, dato che melodia, composizione e arrangiamenti sono ridotti all'osso. Che dire, poi, della conclusiva Back to the Start? Ricordiamo la maestria degli Anathema nel chiudere in bellezza le loro opere: la poesia struggente di Temporary Peace, il raccoglimento di Violence, la quiete tersa di Take Shelter. Adesso invece è il turno di una stevenwilsonata tarocca dagli effetti anestetici, roba che lo stesso Steven Wilson potrebbe scrivere nel giro di un pomeriggio in preda a un pesante abbiocco post-prandiale. Come se non ne avessimo avuto abbastanza, a suggellare questa ora di musica abbastanza inconcludente troviamo l'ennesimo climax pomposo con trionfo di archi e cori.

Che dire? L'errore non è stato tanto quello di riallacciarsi a un album magnifico risalente a sedici anni fa; al massimo è un'aggravante che può aver alzato le aspettative più del necessario (almeno per quel che mi riguarda): i punti di raccordo con A Fine Day To Exit si esauriscono nell'automobile ritratta in copertina e qualche fugace citazione qua e là. Gli Anathema ribadiscono di non avere alcunché da spartire col loro passato, di volerlo anzi fronteggiare; e finora era andata bene così. Possiamo evitare di complicarci la vita e prescindere dai retroscena, ma anche considerandolo per quello che è, ovvero il lavoro di artisti dall'esperienza quasi trentennale, The Optimist resta un disco in gran parte mediocre, tiepido, le cui tinte “oscure” (virgolette d'obbligo) rappresentano solo un pretesto per riproporre le solite idee a vuoto – oppure, nel migliore dei casi, ne accennano di nuove senza spingersi oltre il mero mestiere.

Il protagonista della storia avrà pure superato i suoi drammi, magari è tornato a casa per riabbracciare la sua famiglia, e gli Anathema insistono ad indicarci quella luce che ci attende in fondo al tunnel. In fin dei conti non si può vivere solo di tragedie e autocommiserazione. Alcune cose posso comunque affermarle con certezza: che una parte di me rimarrà per sempre intrappolata tra i flutti impetuosi dell'oceano riecheggianti al termine di A Fine Day To Exit; che, nonostante ciò, ero rimasto soddisfatto della (relativa) serenità ritrovata nella famiglia Anathema; che dopo questa batosta mi riesce arduo pensare con ottimismo al loro futuro; infine, che non hanno più nulla da dimostrare a nessuno, che gli sono grato per ciò che mi hanno regalato in questi anni, e per questo non me la prenderò oltremodo se d'ora in poi si concederanno di invecchiare male.

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