“E si farà l’amore, ognuno come gli va”

Il vice ispettore Seymour Pine non se lo aspettava e quella decina scarsa di poliziotti ai suoi ordini neanche, neppure il sindaco Lindsay se lo sarebbe immaginato; che diamine! Era solo una delle tante retate che avevano come unico scopo quello di fare “scena” per la campagna elettorale; in fondo non si trattava d’altro che di dare una “ripassata” a delle checche e a dei travestiti che bazzicavano un locale gestito da mafiosi italoamericani. Tutti lo sapevano, succedeva quasi ogni sera, in quell’inizio di estate del 1969; tutti se lo aspettavano e, il giorno dopo, tutto sarebbe ricominciato come prima.

E, invece, allo Stonewall Inn di Christopher street lì nel Greenwich Village, quella notte le cose andarono diversamente: una donna si oppose all’arresto chiedendo l’aiuto della piccola folla radunatasi, una bottiglia fu lanciata contro un vetro e un mattone contro i poliziotti; da lì si appiccò un fuoco che durò almeno 5 giorni e 5 notti e che, ancora oggi, si ricorda come “i moti di Stonewall”.

La donna che si divincolava si chiamava Stormé DeLarverie, e questo lo sappiamo. Sulla bottiglia ed il mattone, però, le versioni cominciano a divergere: i resoconti raccontano che quella bottiglia la lanciò Sylvia Rivera e che il mattone (o meglio “i” mattoni) provenivano da una fabbrica lì nei dintorni i cui operai, in sciopero, si unirono alle sommosse; però alcuni testimoni giurano che quella bottiglia (o forse si trattò di un bicchiere) l’avesse tirata Marsha P. Johnson e che, pure il mattone, era uscito da una sua borsetta mentre si arrampicava su di un lampione. Molti altri, invece, sostengono che lei non fosse neanche lì o che ci fosse arrivata molto dopo.

Ma, al di là di ogni ricostruzione dei fatti, tutti sanno che a capo di quella ribellione ci furono Sylvia e Marsha. Il problema è che Marsha era “troppo” persino per un movimento come quello. Tanto è vero che, per lungo tempo, si cercò di oscurare il suo vero ruolo in quei giorni. Nonostante ciò, per molti, Marsha è una specie di Rosa Parks.

Ora, il paragone è ingombrante e, forse, un poco forzato. Però aiuta a capire.

Sicuramente ad Antony Hegarty quel paragone non pare così campato in aria. Infatti quando, dopo una gavetta fatta di teatro e di esibizioni con il collettivo queer “Blacklips Performance Cult”, decide di mettere su un gruppo musicale, gli viene quasi naturale chiamarlo “Antony and the Johnsons” proprio in onore di Marsha P. Johnson.

I primi quattro dischi di Antony (o parte di essi) li abbiamo ascoltati un po’ tutti, credo. Il successo è andato ben oltre le aspettative più rosee e oltre anche la stessa logica commerciale; il nostro, per qualche tempo, è diventato quasi una specie di prezzemolino, esposto ben al di là del necessario, cadendo nella trappola di stancare anche quelli – come me - che lo avevano apprezzato sin dall’inizio.

Per fortuna lo stesso Antony è stato tra i primi a capirlo e, con intelligenza e – a mio avviso – anche una buona dose di coraggio (o incoscienza), ha chiuso con tutto ed ha affrontato un cambiamento radicale.

Radicale in tutti i sensi.

E così, dalle ceneri di Antony, è apparsa Anohni.

“I'll grow back like a Starfish”.

Anohni – la stella marina – è un essere lunare e, su quel filo in bilico tra ogni assurdo dualismo, ci vuole camminare da sola. Così, insieme a tante altre cose della sua vita precedente, la nostra Stella marina,chiude anche coi Johnsons. Solo che, se per il resto (almeno me lo auguro) le cose sembrano andare come devono andare, con la musica no, non va. “Hopelessness” cerca nuove strade, ma, almeno per chi scrive, non le trova.

Anche Anohni lo percepisce, sente che non è tempo di pacificazione, che ci sono ancora strade lunghe e tortuose da percorrere, che ci sono ancora battaglie per le quali è necessario mettere la faccia e allora non resta che richiamare in servizio i Johnsons, e con loro il fantasma di Marsha e le tematiche che certe scelte, inevitabilmente, richiamano. Insomma, se intitoli un disco con qualcosa che suona tipo: “Il mio culo è stato un ponte, per te, da attraversare”, ecco, non credo che resti tanto spazio per le interpretazioni! E, affinchè tutto risulti ancora più chiaro, in copertina, Anohni, ci schiaffa pure una bella foto di Marsha che sorride. Perchè, e su questo non ci debbono essere dubbi, per lei questo è un disco “politico”, qualunque cosa questo voglia dire.

E, affinchè tutto risulti ancora più chiaro, Anohni dichiarerà pure che il modello a cui si è ispirata è quel “What’s Goin’On” di Marvin Gaye che (penso di poterlo dare per scontato) tutti voi conoscete.

Ora, il paragone è ingombrante e, forse, un poco forzato. Però aiuta a capire.

Anohni non è così sciocca da non sapere che, a confrontarsi con un simile monumento (non solo della “black music”), il rischio di andare a sbattere e farsi anche male è piuttosto alto! Infatti il richiamo non è per nulla calligrafico, è più una questione di ispirazione e di sfumature, una roba di “segni” e di “eredità”. “What’s Goin’On” è un disco di trasformazioni e cambiamenti, è un disco “politico” ma non “militante”, un disco che ha aperto strade e, Anohni, ha cercato di dire qualcosa di simile.

La musica è altro, sebbene chi – come me – quel disco di Gaye l’ha consumato (magari se ha consumato anche la versione più “asciugata” conosciuta come “Detroit Mix” la cosa sarà più evidente), in più di un’occasione durante l’ascolto di questo lavoro, si troverà a drizzare le orecchie e ad abbozzare un sorriso. La musica è altro, ma neanche tanto distante: un soul - ”bianco” è inutile sottolinearlo – stilizzato ed essenziale (la vera, principale differenza tra i nuovi Johnsons e il passato sta nella quasi totale assenza degli archi e con essi di tutti i barocchismi che avevano caratterizzato la prima produzione dei nostri), in cui a farla da padrone è sempre la voce di Anohni che non ammette mezze misure, che o si ama o si odia ma che non lascia indifferenti, e la sua capacità di scrivere grandi canzoni.

“And in this society a scapegoat is all I can be”

Lo so che “politico” è parola consunta e che, qui, potrebbe sembrare sovrabbondante, ma quale valore “politico” abbia il tema del “corpo” è cosa che non avrebbe bisogno di sottolineature: nessun potere che abbia la pretesa di essere effettivo può sottrarsi alla necessità del suo controllo; e non si commetta l’errore, dovuto a superficialità, di confondere il tema del controllo dei corpi con quello, che ne è solo un aspetto, della sessualità.

Marsha ha usato il suo corpo ingombrante e ingovernabile come un mattone (o una bottiglia) da lanciare contro ogni forma di controllo e di domino ben prima di quella notte allo Stonewall Inn. Ma i corpi sono anche fragili, si spezzano, sanguinano, sono fonte di bisogni e sono gabbie. Marsha era un agnello sacrificale, un capro espiatorio (uno “scapegoat”), debole e pericolosamente “mostruosa”. Il suo corpo fu spezzato con facilità e quel sorriso in primo piano, sulla copertina del disco di Anohni, per chi ne conosce la storia, è la cosa più disturbante (forse l’unica) di questo lavoro che, per chi scrive, resta una delle migliori uscite da un bel po’ di tempo a questa parte.

Ah! La P. di quel nuovo nome – Marsha P. Johnson – che Malcolm Michaels si era scelta insieme al suo nuovo corpo, sta per “Pay no mind”: “non farci caso”, “lascia perdere”, “non dartene peso”, “non ci badare” e pensa all’essenziale. Che mi sembra un gran bel consiglio, anche su questioni diverse da questa, da dare ad un po’ di gente.

“E senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi o i cretini di ogni età”

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