Certe volte mi chiedo cosa frulli nella mente di un genio visionario come Richard David James, che vita abbia vissuto e come faccia ad alternare, nella sua sconfinata produzione musicale, brani dotati di una dolcezza infinita ad altri disturbanti, ossessivi, pieni di un disagio inesprimibile a parole e di vibrazioni che scaturiscono dall'isolamento, dall'inquietudine o dal consumo dichiarato di sostanze psicotrope (è nota, del resto, la sua adesione al movimento rave dei primissimi anni Novanta).

In altri momenti mi sorge un dubbio: che la sua innegabile vena (auto)ironica lo spinga a prendersi gioco dell'ascoltatore e a prediligere la boutade, la parodia. Un atteggiamento a metà strada tra l'autocompiacimento e la presa in giro, che a mio avviso gli ha impedito, in qualche occasione, di esprimere appieno le sue potenzialità.

Questi e altri pensieri mi sono passati per la testa mentre rispolveravo Come to Daddy, EP pubblicato nel 1997, un anno dopo il precedente Richard D. James Album.

Anche stavolta il producer di Limerick si diverte a giocare con il proprio volto, a deformarlo, caratterizzandolo con un sorriso diabolico e fissando il suo sguardo dritto negli occhi di chi osserva la copertina. Tuttavia, dopo i pupazzetti infernali di Donkey Rhubarb, il viso di Aphex Twin si incastra su corpi di bambini, allo scopo di delineare un perturbante quadretto infantile.

È dunque a quegli anni che il folle Richard vuole tornare, un periodo per il quale prova, manco a dirlo, sentimenti contrastanti: dalla tenerezza alla paranoia, passando per la nostalgia, la tristezza, il turbamento.

Solo questo coacervo di sensazioni può spiegare la presenza di brani dai registri così vari, collocati in maniera tale nella scaletta da generare stupore e straniamento in chi li ascolta.

Ecco che l'angosciante drill and bass di "Come to Daddy (Pappy Mix)" (anzi, direi demoniaca: che razza di rapporto ha avuto con il padre?) precede il toccante pianoforte della splendida "Flim", caratterizzata da bpm meno elevati e tendenti al breakbeat.

Le atmosfere diventano evocative nel successivo mix della title-track e sembra quasi di vedere quel "dirty little boy" che, solitario e un po' assorto, si lascia "trasportare" dalla corrente del canale, tra cigni che nuotano e uccellini fischiettanti (sono le frasi ripetute dalle voci che punteggiano i deliziosi ritmi in controtempo).

Strada facendo, si incontrano strani oggetti e personaggi: palle rimbalzanti che diventano indiavolate batterie drum and bass ("Bucephalus Bouncing Ball", a quanto pare una risposta scherzosa a "Drane" degli Autechre); nenie cantate da bimbi mingherlini su battiti nevrotici e complessi intrecci di sintetizzatori (il remix di "To Cure a Weakling Child"); una madre meravigliata dalla strumentazione del figlioletto, pronto a dare sfogo alla propria schizofrenia, tra rumori assortiti e beat che si accartocciano su se stessi (il "Mummy Mix" di "Come to Daddy" , dove la signora James esclama: "You got so many machines, Richard"); e per finire, hi-hat, tappeti ambientali e malinconici Fender Rhodes (la bellissima "IZ-US").

Al termine della riproduzione si rischia di restare leggermente frastornati, sia per la brevità del tutto (poco più di trenta minuti) sia per la manifesta instabilità mentale del protagonista. Tuttavia, superando questi scogli, si comprenderà quanto Come to Daddy sia un lavoro importante non solo per l'evoluzione del sound targato Aphex Twin, ma anche della musica elettronica tout court.

Generi come la drum and bass nelle sue varianti più spinte e il breakbeat (supportati da campionamenti creativi e da un'estetica orrorifica, come quella del famosissimo videoclip diretto da Chris Cunningham) devono molto all'EP dell'enigmatico musicista irlandese, sempre pronto a provocare e stupire la sua nutrita schiera di fan.

Per questo motivo, il mio consiglio è quello di tuffarsi almeno una volta nel cervello squilibrato di Richard David James e provare a farsi trasportare dai suoi deliri, dalle sue ossessioni, dai suoi repentini cambi di stati d'animo.

Magari solo per gridargli, come il ragazzino dell'ultima traccia: "Stop making that big face!".

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