Ci hanno provato in tutti i modi.

In primis scegliendo una copertina abbastanza orribile. Poi togliendo quasi completamente quella ruvida patina garage che ricopriva il precedente “Derdang Derdang”, in luogo di suoni molto più compressi, quasi a voler strizzare l’occhio a certo revivalismo post punk 80’s (dei migliori si intende), fino a estrapolare un singolo, Shark’s Tooth che ne esemplifica la scelta estrema, incrocio (impensabile 4 anni fa) fra ritmiche Gang of Four /New Order, una chitarra presa di forza dai secondi Cure, e il solito cantato post David Byrne. Niente di nuovo, anzi una bella virata verso dove tira il vento “alternativo” di oggi, ossia i suddetti 80.

Anche provandoci, però, non ce l’hanno fatta. A farmi ricredere su di loro intendo. Perché alla fine della giostra, e dopo vari ascolti, il disco fila che è una bellezza, anche con l’enorme differenza di suoni rispetto al precedente (ma  la scelta di Tim Goldsworthy della DFA dietro al mixer non poteva portare ad altro).  Niente di epocale, e con anche un paio di cadute di tono (“Run Gospel Choir” lascia abbastanza indifferenti, in “Chunk” sembrano quasi quelle merde degli ultimi Yeasayer, suoni finto plastica che abolirei), ma gli highlights sono abbastanza, soprattutto quando i tre ragazzi intraprendono impervie strade psychowave, interessanti e poco battute prima, come nell’iniziale “Magnetic Warrior”, ipnotica nella sua tribalità, e in “You Have A Right To A Mountain”, selvaggia escursione a dorso di dromedario, insieme ai Master Musicians of Jajouka, da Algeri a Essauira. Ance, corde e percussioni a gareggiare per 4 minuti e rotti.

Sono in cerca di una identità sonora, ma vista la marea di band che dopo un disco decente si fossilizza sui propri schemi, direi che c'è poco da lamentarsi.

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