Aretha Franklin - This Girl's in Love with You
Annoiato, steso sul divano sto godendo delle fusa di Ziggy quando vedo lo schermo dello smartphone illuminarsi e comparire una notifica Whatsapp, mittente Domenico, l’amico che mi procura i vinili di stampa giapponese. Nell’anteprima del messaggio riesco a leggere “Mauro, ho trovato l’album di Aretha …”. Negli attimi necessari per accedere all’app, già pregusto il momento in cui poggerò il vinile sul piatto dopo tanti ascolti su Tidal: ho già sperimentato la palpitante esperienza con “Lady Soul” e so che sarà uguale, se non meglio.
Apro la chat e vedo la copertina: Aretha in raffinato abito bianco, ma non è quello che cerco, bensì quello che la critica considera il capolavoro della Franklin: “I Never Loved A Man The Way That I Love You”.
Deluso rispondo: no grazie. Lo so, sto rifiutando un album imprescindibile per una collezione ma, nella mia collezione, prima devo avere “This Girl's In Love With You”.
Quello in cui Aretha, elegantissima ma in altra mise sempre bianca, siede dietro al pianoforte: immagine che, iconicamente, ricorda la svolta della sua carriera iniziata con l’approdo all’Atlantic nel 1967 e così ricordato dai presenti: “Aretha, timida e riservata, disse poche parole ma quando si sedette al piano iniziò la magia”.
Quello con dentro quella canzone che, stroncata dalla critica in quanto troppo pop, mi riempie gli occhi di lacrime ogni singola volta che l’ascolto, rivoltando la mia “Anima junghiana” come un calzino: “Call me”.
Quello pieno di cover che non rendono, dicono i soloni della musica, quanto gli originali.
Quello che è stato giudicato tra i meno riusciti della mirabile parabola degli anni in Atlantic, iniziata nel 1967 proprio con “I Never Loved A Man The Way That I Love You” e che annovera, tra gli altri, “Lady Soul”, “Aretha Now” e “Amazing Grace”.
Ok, sarà pure così, paragonato a quei capolavori sarà di portata minore. Ma se non è “Aragosta & Champagne” sarà, quanto meno, “Astice & Franciacorta”!
Che poi, sembra, che l’album sia stato fortemente voluto dalla stessa Franklin la quale, avendo riconosciuto il valore di quei giovani artisti e la bellezza delle loro canzoni, le voleva fare proprie. Finalmente questa donna ha la possibilità di gestire la propria vita e la propria carriera e, da donna cazzuta qual è, impone a tutti il proprio volere, ed era ora!
Donna cazzuta, se ce n’è una per me è lei. Del resto, la mia generazione ha compreso questo miracolo della natura vedendola cazziare Jake ed Elwood Blues sulle note di “Think”: mani sui fianchi, sguardo fiero ed espressione killer che però, alla fine lascia che il marito (Matt Murphy) e l’inserviente (Blue Lou) si uniscano alla reunion de “The Blues Brothers”. In queste vesti mi ricorda mia zia Jole di Catania, oggi non più tra noi, quando da bambino mi metteva in mano la spessa bottiglia di vetro con chiusura ermetica e mi mandava al chiosco all’angolo a farla riempire di seltz sale e limone. Tutta via Dello Stadio sapeva che ero il nipote della signora Jolanda ed io ne ero fiero! Di quella pasta d’uomo di mio zio nessuna traccia, una specie di principe consorte; la regina era lei, mia zia con le palle quadrate! Penso in pochi potessero immaginare, dato il modo in cui lei pubblicamente trattava suo marito, che la mia commissione era diretta principalmente a soddisfare la gola dell’amato Giò, perché lo amava, eccome se lo amava! Fu chiaro a tutta via Dello Stadio solo il giorno in cui lui la lasciò sola dopo quasi settant’anni di vita in comune.
Sono cresciuto tra donne forti. Mia nonna, rimasta vedova e che spaccava rottami di ottone e ferro con la mazzetta da muratore. Mia madre, che non avendo il polso fermo e la determinazione della sorella Jole, pur di affermare la propria indipendenza e volendola conciliare con i “doveri” di una madre di famiglia si procurò quello che, all’epoca, veniva definito esaurimento nervoso. E potrei continuare …
Penso, quindi, sia normale che la mia donna ideale sia una donna forte, indipendente, consapevole e che si basta da sola. E se, proprio proprio, decide di condividere la propria vita e rinunciare -malvolentieri - ad un po’ di indipendenza, lo fa per forte passione e/o amore travolgente. Non per rispetto delle convenzioni, bisogno o altro.
Che poi noi ometti, diciamocelo chiaramente, dovremmo inginocchiarci e chiedere perdono per almeno settemila anni a tutte le donne del mondo, cazzute o meno. Solo perché la natura ci ha fatti fisicamente più prestanti, abbiamo sfruttato tale abilità ergendoci ad esseri superiori. Nel migliore dei casi pretendendo riconoscenza, rispetto, fedeltà, cura della casa e dei figli, silenzio, sottomissione, … nel peggiore gonfiandole di botte per prendere ciò che ci piace. Anche i dottissimi greci antichi consideravano la donna un essere inferiore da confinare nel gineceo. Nel corso dei millenni le cose sono migliorate ma basti ricordare che, in Italia, il diritto al voto alle donne è stato riconosciuto con decreto del 10 marzo 1946 (millenovecentoqurantasei!) per capire che le cose non vanno. Nemmeno oggi, nel 2024!
E la Franklin capatost probabilmente lo è diventata “grazie” agli eventi che una donna, per di più di colore, negli anni cinquanta poteva “ordinariamente” subire. All'età di 12 anni divenne madre, per la prima volta, del figlio Clarence. Un secondo figlio, Edward, seguì due anni dopo. Aretha non amava parlare di queste gravidanze e, del resto, non occorre aggiungere parole per capire come possano essere andate le cose. Ma non devo di certo essere io a raccontarvi la biografia della Franklin o il suo ruolo nella cosiddetta “causa femminista”.
Piuttosto, quello che posso dire è: cosa fai quando arriva il momento di registrare un altro disco e sei quella che ha già 15 album in studio all’attivo, sei al culmine della tua carriera e acclamata come la più grande cantante della tua generazione? Anche se agli altri potrebbe sembrare che non ci sia più nulla da dimostrare, ci sono ancora una o due cose che – da donna determinata e tenace - potresti voler avvalorare. Ad esempio: chi è veramente la "Regina del soul" e il fatto che quando scegli una canzone, diventa la tua.
E che canzoni sceglie? Robetta, tipo: “Let It Be” (la prima pubblicazione del grande classico è proprio di Aretha, cui Paul McCartney aveva inviato una demo di modo che l'iconoclasta cantante americana potesse farsene un'idea prima della pubblicazione dei Beatles), “Eleanor Rigby”, “Son Of A Preacher Man”, “The Weight”. Anche la title-track è una cover di “This Guy's in Love with You” di Herb Alpert. Non solo, “It Ain't Fair” era già stata pubblicata da Ben E. King due anni prima, “Share Your Love with Me” fu originariamente registrata nel 1963 dal cantante blues Bobby Blue Bland, “The Dark End of the Street" era già nota al pubblico per l’interpretazione di James Carr del 1967 e “Sit Down And Cry” - che potrebbe sembrare un inedito - era stata precedentemente cantata dalla leggenda del soul underground Jean Wells.
Come accennato, la critica affossò soprattutto le cover di Beatles, Bacharach/Springfield e The Band evidenziando – a loro avviso - l’inappropriatezza del trattamento R&B con forti venature gospel loro riservato.
Dal canto mio e dopo 54 anni, piuttosto che fare graduatorie e distinguo, mi godo, anche, le interpretazioni di questi brani storici cantati e suonati a livelli siderali perché, ad accompagnare Aretha, troviamo la sezione ritmica dei Muscle Shoals Studios con in più Duane Allman alla chitarra slide. Solo una curiosità: “Son Of A Preacher Man” in effetti, era stata scritta inizialmente per Aretha, figlia di un predicatore, e poi affidata alla Springfield al fine di lanciarne la carriera: pare abbia funzionato!
Sugli “standard” R&B e soul, chevelodicoafare: prendete, ad esempio, "It Ain't Fair" a mio avviso il miglior inno solitario mai cantato (Tom Waits a parte!). Ma anche le altre sono canzoni meravigliose che hanno, tra l’altro, il pregio di non aver subito la sovraesposizione di altri brani di pari bellezza ma ben più noti.
In buona sostanza, l’unico brano inedito è “Call me” scritto dalla stessa Aretha. Qui la Franklin non ha pietà: mi infila la mano tra il costato giungendo al cuore e lo stringe fino a far esplodere i ventricoli cardiaci. Sarà perché, da sette anni, i saluti in aeroporto sono diventati un cliché ma puntualmente, ogni volta che l’ascolto, subisco l’intervento cardiaco.
Aretha ha, di fatto, scritto “Call Me” dopo aver sentito due amanti parlare in una strada di New York City ed è rimasta così colpita dall'emozione con la quale uno di loro ha pronunciato “chiamami (appena arrivi)” che ha preso le parole per farne il titolo di una canzone dal testo semplice ed immediato. Una storia toccante, di innamorati che presto si separeranno ma che porteranno la loro passione nei cuori, ovunque si trovino.
Ma, seppur bello nel suo minimalismo capace di fare di un dettaglio una poesia, non è il testo che rende la canzone memorabile, ma l’interpretazione. Perché, a mio avviso, non è la sua tecnica che ha letteralmente stregato tutti o la capacità di cantare sopra un'ottava, a fare di Aretha la più grande cantante di tutti i tempi, quanto le doti interpretative. Le sue, non sono mai interpretazioni studiate a tavolino, ma nascono dal desiderio di dar voce alla sua anima. All’Atlantic hanno capito che, l'unico modo per la Franklin di arrivare ad interpretazioni sublimi, è quello di lasciarla cantare come vuole lei senza dirle nulla, senza interromperla. E dopo tre anni di successi la lasciano fare ben volentieri! Quegli acuti, capaci di sverniciare immantinente un cancello, improvvisi e nei momenti apparentemente meno opportuni di un brano, così come i toni bassi, sono i momenti in cui Aretha dimostra di non essere una semplice cantante, ma prima di tutto un'umana creatura che soffre e gioisce attraverso il suo canto. La profonda malinconia, lascito degli avvenimenti di una vita non facile, le permisero di caricare le interpretazioni delle sue paure, dei suoi sensi colpa e dei momenti di gioia, sempre improvvisi e spontanei. Per me, solo una donna cazzuta sa amare e cantare l’amore con questa passione.
A Sam: that girl in love with me.
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