Le note sfuggenti di "The weirding" continueranno ad ammaliare gli ascoltatori, trasportandoli nel mellifluo universo del prog rock firmato seventies. "The weirding" fu un vero e proprio gioiello: musica, classe, personalità. Gli Astra esplosero negli ambienti dell'underground californiano, riesumando il fantasma del prog rock. La rielaborazione di King Crimson, Yes, Pink Floyd e Genesis era compiuta.

Lo spessore qualitativo e compositivo del debutto targato Astra aveva fatto gridare al miracolo, almeno tra gli ambienti (ristretti) di coloro che hanno assaporato e conosciuto un lavoro che non ha mai riscosso il giusto tributo. Ora, a tre anni di distanza, i cinque californiani sono tornati in studio ed hanno tirato fuori "The black chord". Tanta l'attesa, tanta l'impazienza, tante le aspettative...

Il primo ascolto è stato doloroso, lancinante. Può davvero esserci stato un salto indietro di queste dimensioni? Forse no, o forse le aspettative legate al nuovo disco erano troppe per sperare in un nuovo capolavoro. Il tempo e gli ascolti portano consiglio, ma non sono bastati a ridefinire in termini totalmente positivi la seconda poesia psichedelica del quintetto.

Quello che manca a questo "The black chord" è la verve compositiva, le fughe solitarie che avevano reso "The weirding" una perla capace di addentrarsi in meandri strumentali da cui diventava complicato venire fuori. In "The black chord" non mancano gli spazi strumentali, ma anzi sono fin troppo presenti, senza però avere l'incisività del platter precedente. Il fulgido esempio è piazzato in apertura: la strumentale "Cocoon" vorrebbe essere "Ouroboros" ma non ne raggiunge minimamente la forza e l'efficacia, pur risultando un pezzo godibile e con un buon impatto atmosferico.

Il nuovo lavoro sembra voler liquidare con troppa facilità le linee vocali e la voce di Vaughan, anch'essa meno convincente rispetto al passato. Gli Astra mostrano il fianco e seppur con composizioni magniloquenti non riescono a colpire pienamente. E' il caso della titletrack, song perfetta in tutto, oltre che sognante e dai tratti psichedelici e decadenti, ma brutta copia della "The weirding" masterpiece del cd antecedente: uguale per minutaggio, uguale per struttura compositiva (con il testo che viene ripetuto a metà song dopo un lungo trip di soli strumenti), ma risultato finale differente per quanto riguarda la capacità di coinvolgimento e l'esito compositivo.

Descritto in questi termini "The black chord" sembrerebbe un pannolino di diarrea: non è affato così. Questi Astra sanno il fatto loro e conoscono la materia in cui si muovono: la gemma "Drift" è la testimonianza precisa della competenza di questi cinque musicisti. Così come complessivamente non si tratta di un lavoro pessimo, ma bensì di un cd di sufficiente rock progressivo, annacquato da soluzioni discutibili. La prova è "Bull torpis", inutile spruzzata chitarristica di due minuti, che assume le sembianze di un riempitivo. A dimostrazione di come il tiro generale sia andato in calando.

Il secondo studio album del quintetto americano si salva in calcio d'angolo, ma classificarlo come una caduta di stile sarebbe sbagliato. La maggior parte dei gruppetti che tentano di approcciarsi al rock progressivo dovrebbero ripartire studiando gli Astra, ma forse sarebbe meglio concentrarsi su "The weirding". Inevitabile quando si hanno solo due cd all'attivo fare confronti tra i due. Proprio per questo il tanto atteso "The black chord" diventa piccolo piccolo, si eclissa, di fronte alle infiltrazioni spaziali del suo predecessore...

1. "Cocoon" (8:43)
2. "The Black Chord" (14:58)
3. "Quake Meat" (6:39)
4. "Drift" (4:37)
5. "Bull Torpis" (2:55)
6. "Barefoot In The Head" (9:13)

Carico i commenti... con calma