Dei Bad Company storici, quelli dei primi album, colgo la possibilità di aggiungere nel sito questo terzo lavoro del 1976, che si presenta con un bel titolo e una gradevole copertina. Anche se Pack significa branco ma, del sociale e volitivo quadrupede che viene accostato idealmente a questo vocabolo, appare disegnata in realtà solo un’affettuosa famigliola.
Trovo piacevole e confortante, ma piuttosto inspiegabile il successone americano dei Bad Company negli anni settanta. Istantaneo fra l'altro: appena pubblicato il primo album… bum! Erano forti, come no, ma non poi così fighi. Certo Paul Rodgers era un grande col microfono, ma lo era già da anni, per tutti i rocchettari. E l’addizione di Mick Ralphs, chitarrista intelligente essenziale e ficcante, era sicuramente un plus. Ma le mie sensazioni sono che la coppia sia stata una fucina di ottime canzoni, però non epocali.
In ogni caso il quartetto vendette una marea di copie del primo disco omonimo, poi un’altra moltitudine col secondo “Straight Shooter”. Questa terza pubblicazione provvide invece ad abbassare di parecchio quello standard e non vi trovo ragione, visto che la loro formula hard rock blues minimalista basata su pochi, concisi, funzionali riff, idee melodiche e ritornelli, si manteneva anche in questa sede quantomeno allo stesso livello di efficienza… Chissà, forse in questi casi succede come al passaggio di un’onda, che prosegue in avanti e già ci si volta dietro a scrutare la prossima.
“Live for the Music” aggredisce per la voce stupenda ed associato assoletto minimalista di chitarra, risolto con un giochino di delay che al tempo costituiva novità. Ma il riff in questo caso è veramente primitivo… non è manco un riff, è una nota sincopata e basta. La lamentosa “Simple Man” che le succede è Rodgers allo stato puro. Ralphs raccoglie l’idea di arpeggio del socio sull’acustica e lo sublima colla sua elettrica. Una delle migliori.
“Honey Child” sfoggia quel solito chorus dei tempi, sempre schiacciato nella pedaliera di Ralphs… Quelli erano i giorni. A contrasto subentra la pianistica “Love Me Somebody”: il frontman all’inizio se la canta troppo in basso per la sua emissione naturale e vi sono problemini di intonazione ed espressione, ma presto la melodia recupera altezze a lui consone. E’ un riempitivo.
“Running with the Pack”, la canzone scelta come titolo dell’album, come sovente accade è la migliore del lotto. Troppo bella e agganciante la frase che ne costituisce l’intero ritornello, sì da riscattare all’istante l’anonimato di tutto ciò che succede prima, nella strofa. Infatti è sfruttata a lungo nell’interminabile coda, con tanto di epica orchestra a supporto. Un classico della Cattiva Compagnia: viene irresistibilmente la voglia di cantarla: “I’m running with the paaaaack!”, che bella!
Pianistica pure la tersa ballata “Silver, Blue & Gold”, giocata su pochi accordi abbelliti con le quarte. Vi sono due tempi diversi fra strofe e ritornello, idea carina. Episodio molto accessibile, un altro dei migliori. Viene fatto seguire da una cover, la “Youngblood” dei tardi Coasters dell’anno 1967: altro riempitivo.
Lo è pure il valzer blues “Do Right by Your Woman”, simile melodicamente ad altre cose della BC. Niente di speciale nemmeno “Sweet Lil’ Sister”, tipico rock blues basico scarsamente melodico a firma Ralphs. Chiude la malinconica ballata “Fade Away” (appunto), senza particolare impatto anch’essa.
Che si può dire di più della Bad Company… niente, tocca ripetersi: voce di una bellezza timbrica, mobilità, maschiosità uniche; tre o quattro idee per canzone non di più, però spesso più che pregnanti; suoni di chitarra stupendi, non una nota in più del necessario secondo la benedetta legge “di meno è meglio”; sezione ritmica sulla stessa lunghezza d’onda, cioè poderosa ma economa, non si pesta una nota in più del necessario, neanche sotto tortura. Minimalisti, sottrattivi. Come ad esempio i Dire Straits (escluso quel loro gonfio “Making Movies”).
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