Alla luce declinante di settembre preferisco quella giallastra e malaticcia dei lampioni.

È importante non grattare le crosticine prima che l'abrasione non sia rimarginata: sangue e bruciore, bruciore e sangue.

E carne viva.

Quattro lunghe suites in continua evoluzione e involuzione. Quattro porzioni di pelle sottile stuzzicate ossessivamente dalle unghie di droni psichedelici, puntinismi elettronici e sincopi techno.

Insofferenza che riaffiora, disagio che riemerge, rabbia che monta.

E ferite riaperte.

E allora lacerazioni industrial distorcono i droni psichedelici, glitch purulenti impiastrano i puntinismi elettronici, brucianti sfuriate hardcore si insinuano nel battito delle sincopi techno.

Un disco giocato sull'equilibrio che si intuisce precario di una calma/immobilità apparente che porta già in sé (con quel sound minaccioso e oscuro) i germi delle future dissonanze/distorsioni che cambiano continuamente le carte in tavola.

E Ben Frost non si ferma quì.

L'epidermide a volte sembra finalmente compattarsi in sprazzi di un'elegante musica da camera suturata dalle tenui linee di archi ovattati che sfociano nella malinconica presa di coscienza dell'adagio finale.

La mia pelle alla luce del lampione ha qualcosa di irreale, metafisico, estraneo.

E ci sono cicatrici.

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