Il folle “Dancehall For Midgets” è un disco che forse, anzi probabilmente, per non dire quasi di sicuro non vi piacerà, ma vi terrà svegli, o vi favorirà degli interessanti incubi dinamici. Procede per salti e balzi, essendo frutto, io credo, di un'attitudine schizoide e visionaria, che traspare dalla declamazione allucinata di Bill Horton. Costui non ha nulla a che fare con la band, a tutt'oggi in sella, The Reverend Horton Heat, e neppure con Bill Horton & The Silhouettes, gruppo melodico piuttosto noto nei tardi anni Cinquanta, da ricordare se non altro per il fatto di essersi riunito 19 anni dopo lo scioglimento (1961, 1980), ma questo è un altro discorso, che però giudicavo utile a inaugurare questa breve recensione con un gioco di specchi funzionale alla descrizione di certe atmosfere.

Un afflato teatrale innerva gli interventi vocali e chitarristici di Bill. C'è qualcosa di Tim Buckley che agisce in quest'uomo, una suggestione legata al vibrato del canto - nel caso di Horton, alla sua gutturalizzazione -, ma solo per sprazzi. La voce è infatti piuttosto monocorde in quel suo tenorismo da contralto, laddove quella di Buckley era innervata da un'ampia gamma di sfumature.

Due musicisti misconosciuti collaborano con Horton, che appare in copertina nel centro di una pupilla: al basso e al sitar elettrico (strumento per il quale consiglio l'ascolto di Clem Alford, “Mirror Image”, di due anni addietro) troviamo Steve Fricker; alle percussioni, Dave Gardner, che viene fatto sparire quando Horton, a suo insindacabile estro, impone la propria centralità assoluta, a tratti così provocatoria e superflua per l'economia del brano da diventare null'altro che esibizionistica.

Qualche volta, e sono gli episodi migliori dell'opera, si rimane a galleggiare sospesi su di un arpeggio di chitarra, in quello stesso vuoto celebrato in “Rages of Emptiness”, pezzo fra i più incisivi, ma in ostaggio della successiva visione, che da un momento all'altro può irrompere impietosa dagli oscuri scantinati della psiche del Vate.

L'apogeo di questo approccio si registra nella suite di “Dreams”, che copre la gran parte del lavoro, un pezzo molto cadenzato, in una sorta di loop, con ricami alla chitarra elettrica e accelerazioni frenetiche, continue pause e riprese accomunate dalla loro stessa irregolarità e tenute insieme dall'affabulazione di Horton.

L'impressione complessiva è quella di due buoni musicisti, Fricker e Gardner, per chissà quale colpa chiusi in uno studio di registrazione e schiavizzati da uno stravagante, carismatico funambolo - forse ispirato anche dal Sommo Captain Beefheart. Ma si tratterebbe di un processo alle intenzioni: sempre meglio l'ascolto.

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