Usare un sito di recensioni per scrivere una non recensione mi pareva essere una buona idea.
Al mio risveglio un libro di Pirandello mi guarda dalla libreria. Tante maschere, pochi volti, diceva. Butto un occhio all’orologio: è ancora presto per alzarsi. Fuori a malapena è l’alba e si sente solo l’allarme di chissà quale auto. Mi giro, rigiro, ma di riaddormentarsi non c’è verso. I pensieri iniziano a galoppare. Penso ai volti a me familiari. A chi mi è accanto, a chi non vedo da troppo tempo, a chi ho dimenticato, a chi non riesco a scordare. Penso ai volti che non conosco: li immagino nei racconti altrui, li idealizzo a mia somiglianza. Ogni volto è un legame. Ogni volto è un evento della mia vita. Ripenso alle mie azioni. Ho fatto bene? Male? Avrei dovuto comportarmi diversamente? Scaccio l’ansia con un sospiro e capisco quanto, quei volti sinceri, siano davvero importanti. È una marea che non conosce fine: intima e urlata, fragile e burrascosa.
Fragile, già. Credo di aver trovato la parola che sia l'identità perfetta della musica dei Birds In Row. Una fragilità che come un prisma riflette infinite sfumature. Vedo la fragilità nella copertina di “We Already Lost the World”. Fisso la fotografia, mi passano in testa gli scatti di Walker Evans con il suo studio sulle mani: era il 1929, siamo nel 2018 e per me continua ad essere ipnotico il significato racchiuso in due mani che si stringono a vicenda. La tensione dell’uno verso l’altro, del fidarsi, del rassicurarsi e dell’intrecciarsi. Lì, come in una perla racchiusa in una conchiglia, sta per i Birds In Row la speranza. Delicata come un cristallo. Il mondo brucia in un mare di cenere, ma c’è ancora un’ancora da gettare per salvarsi. Forse. La fragilità prende le sembianze di un navigare disperato e malinconico, alla ricerca di quel faro che la rischiari. È l’ultima eco di un grido di battaglia, prima di sprofondare negli abissi.
"How to know you’re falling without a floor, walls or ceiling? It’s a comedy that chases no end."
Sprofondare, già. C’è questa scena in La Haine che amo dalla prima volta che vidi il film. La Tour Eiffel si spegne. Hubert racconta a Vinz l’aneddoto del tizio che cade dal palazzo di 50 piani: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.” Quando iniziano i 34 minuti con “We Count So We Don’t Have to Listen” sembra proprio di partire da quel 50esimo piano. I Birds In Row ci accompagnano mano nella mano per scavare nel solco provocato dalla caduta. Con una viscosità emotiva che anima ogni frazione di secondo del platter. Tutto appare sfocato. Stiamo per precipitare e veniamo sommersi dal treno delle strade che avremmo potuto intraprendere. Ed è qui che compare la mano di “We Already Lost the World”. Un gesto di salvezza, d’amore. Un amore verso l’altro, che scaccia una visione cieca e solitaria. Che vive nei rapporti umani, che vorrebbe vivere nella società. Che vorrebbe… esistere. Le folli schegge di post-hardcore, screamo e post-punk all’improvviso ci appaiono meno dolorose.
Dolore, già. L’amore è una sfida, raccontano i Birds In Row in "Love Is Political", ma il cataclisma di "Fossils" è la bruciatura finale, che pare far evaporare ogni forma di vita. "The sea runs dry, we lose hope" è la cantilena sofferta che mette il sipario su “We Already Lost the World”, prima che un’inondazione del feedback di chitarra ammutolisca tutto e tutti. È una presa di coscienza finale? O è il ritorno a quei pensieri che tengono sbarrati gli occhi la notte? È una danza che si muove su una terra arida, ma i Birds In Row, in questo hanno voluto indicarci l’antidoto. Un grande ballo finale a cui partecipare:
“We run away from each other and stumble on the mirages of universal love. Love became a political statement. Speak up your mind but never forget to listen. We already lost the World, and it’s ours to take it back.”
Già, take it back.
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