15 dicembre 2010, oggi Marco, amico o ex amico mio, spegne le trenta candeline, è un po’ che non ci sentiamo e ancora di più che non ci vediamo, gli ho appena mandato un messaggio di auguri, non mi ha ancora risposto e probabilmente dubito lo farà… conosco il tipo, un’ameba totale: troppa fatica rispondere anche con un semplice “Grazie”. Pazienza. Ormai è un anno e mezzo che faccio a meno di lui, anche se devo essere franco abbiamo passato tanti momenti piacevoli assieme.

Il 2008 fu un anno relativamente piacevole e molto particolare: fu l’anno in cui ricevetti la tardiva vocazione di ritornare all’università, l’anno in cui ci lasciarono Rick Wright e Stefano Rosso, l’anno che ebbe l’estate circoscritta dai concerti dei Blue Oyster Cult: a Roma a giugno, al suo inizio e a Trezzo sull’Adda a settembre: in entrambi i casi lo spilorcio non pagò più di dieci euro tra viaggio e biglietto, tutt’ora mi chiedo come ho fatto a sopportare una tale larva per così tanto tempo.
Per poco non me lo perdevo per lasciarlo li Trezzo (non avrei perso niente, ma vabè…) per la sua smania di farsi la seconda birrazza gigante (in tutto arrivò a tre quella serata) e di conseguenza di non raggiungermi sotto al palco: alla fine dell’esibizione riuscii anche a fermare quattro membri su cinque, mi persi solo il bassista Rudy Sarzo, probabilmente per colpa di quel perdigiorno di Marco, appunto, che rimase a farsi due paglie nella zona fumatori.

L’unico disco che mi feci autografare fu il disco meno rappresentativo della band dopo “Club Ninja”, ovvero “Curse of the hidden mirror”, che a giugno riuscii a farmi firmare dal solo Jules Randino, giovane batterista… insomma, il disco meno rappresentativo autografo dal membro meno importante della band: era fin troppo ovvio che dovevo farmi anche il secondo concerto SOLO per aspettare gli altri membri della band e avere i loro nomi scritti sulla copertina del loro operato.
“Curse of the hidden mirror” lo acquistai quasi per caso un sabato dal negozio “Good Music” di Chiavari il giorno prima di un turno di quattro/cinque ore di lavoro prova (o tappa buchi) in un ristorante a Zoagli, inutile dire che non ci tornai più, pazienza.

Tre anni dividono il precedente (e leggermente superiore) “Heaven Forbid” da questo (per ora) ultimo lavoro della band newyorkese, nella precedente fatica si potevano ascoltare brani di fattura più pregevole se non addirittura eccelsa come nel caso della meravigliosa “Harvest Moon” che da sola vale l’acquisto del disco, o nel caso del rifacimento live del classico “In thee”, testo e musica entrambi di Lanier, (oltretutto una delle canzoni che più amo del quintetto, pur essendo inserita in uno dei loro album più mediocri: “Mirrors”), ma in questo “Curse…” ben poco materiale è degno di stima.
Certo, si tratta pur sempre di un lavoro piacevole, di una delle più grandi band di tutti i tempi (no, non sono un megalomane), il gruppo si limita a suonare col suo stile, lo fa bene, senza ombra di dubbio, con tanto di arrangiamenti ben curati e suoni perfetti e perfetti nella scelta e nel gusto, ma non riesce a trovare il mordente adatto per farsi apprezzare quel centilitro di più che basta. Ma analizziamo “track-by-track” tutta l’opera: si parte con “Dance on Stilts”, ottimo riff di chitarra, spettacolare l’assolo, Lanier dietro alle tastiere sparge magia per sei minuti come non mai: sicuramente il miglior pezzo tra tutti. Non sarà casuale che per via della sua presa diretta all’apparato emotivo dell’ascoltatore sia stato inserito come brano d’apertura.
Si cala notevolmente col brano successivo, gli otto secondi iniziali di hendrixiana memoria sembrano promettere bene, peccato che da Jimi si passa a Bob (Marley), siccome le ritmiche sfociano addirittura nel reggae più schietto (!), solo trent’anni prima impensabile per una band che sembrava essere la risposta a stelle e strisce ai Black Sabbath.
“The old Gods return” per buona ventura risolleva le sorti, anche se il ritornello appare poco convincente: il titolo sembra voler fungere da epitaffio per la leggenda vivente che i cinque ragazzi portano avanti con coraggio e devozione; i vecchi dei sono tornati, non sono più quelli di tanti anni fa, ma sanno ancora suonare alla maniera che solo loro sanno fare, e ve lo dimostrano!
La coppia “One step ahead of the devil” e “Pocket” sembra riportarci agli anni ’70, ma sono anni ’70 suonati alla maniera del XXIesimo secolo, un po’ anacronistici tutto sommato ma pur sempre piacevoli.
Il mio orecchio si è fin da subito adagiato con diletto al ritornello piacevole di “I just to be bad”, un pezzo un po’ banalotto ma anch’esso pregevole e facile da amare, forse per via della sua semplicità stilistica, mentre di stessa piacevolezza d’intercettazione si può parlare della seguente “Here comes that feeling”, arricchita da una linea vocale precisa e perfetta e un riff semplice ma che si fa ricordare, interpretata vocalmente dal timbro pacato e gentile di Buck Dharma: il quale, in questo disco, ha prestato la sua voce anche in "Dance on Stilts", "Pocket" e "Stone of Love”, della quale però disquisirò più avanti.
“Out of darkness” la segnalerei per la meravigliosa introduzione che si ripete anche prima del ritornello, peccato che quest’ultimo sia male uscito dal travaglio di composizione e mal si sposa alla strofa.
Qui arriviamo al secondo pezzo, dopo “Dance on Stilts”, in ordine personale di preferenza, si tratta di “Stone of love”, di cui prima accennavo: la voce di Buck Dharma ritorna nuovamente a far bella mostra di sé, in un brano arrangiato con maestria quanto l’opener, con il solito azzeccato assolo roeseriano (Donald Roeser è il reale nome anagrafico di Buck Dharma), buoni accordi e la solita maestria di chi sa fare bene il proprio mestiere.
Siamo agli sgoccioli, ecco che arriva “Eye of hurricane”, buon riff, ma nulla di incredibile o spettacolare, migliora le sorti le tastiere, che danno un tono là dove manca; termina il discorso il ritmato “Good feel hungry”, buono come tutti i dieci pezzi precedenti ma non eccellente, poco testo. Il pezzo più debole e ordinario di tutto l’operato.
Cosa posso pensare, in sintesi, di “Curse of the hidden mirror”? Un buon lavoro ma che non rilascia grandi ricordi auditivi, un disco più per gli aficionados della band anziché per i neofiti che si muovono nell’orbita del culto dell’ostrica blu.

Se si fosse trattato di un compito e i cinque scolaretti si fossero trovati dietro ai banchi con la loro strumentazione sotto mano, il voto potrebbe oscillare tra il sei e il sette: un sei che è più che un “sei politico” dato più per venerazione che per effettiva piacevolezza, un sette che non può essere assolutamente un voto pieno, diciamo che un “sei al sette” (come si dava ai miei tempi, chissà se si dà ancora…) può essere il compromesso finale: e ciò è avvalorato dal fatto che alterna episodi più piacevoli ma quasi mai eccellenti, a cali di tensione che però non sfociano mai nella noia.
In ogni caso. Mi sento di consigliare, il live uscito l’anno seguente: “A Long Day's Night”; solita operazione nostalgia, certo, ma buono nella funzione di saggio per ascoltare i Blue Oyster Cult come suonano i loro classici nel terzo millennio.
Per gli amanti delle curiosità, nello stesso anno del rilascio di “Curse…” (2001), venne stampato dalla Elektra il long playing “St. Cecilia: the Elektra recording”, materiale registrato trentuno anni prima e mai rilasciato, non dei Blue Oyster Cult ma dei White Soft Underbelly: in sintesi la formazione precedente ai Blue Oyster Cult classici, che si discosta dalla formazione originale (Bloom, Roeser, Lanier e i fratelli Bouchard) per via della mancanza del bassista Joe Bouchard che qui non ancora presente, ne assolve il compito tale Andrew Winters. Ebbene, il titolo dell’album “Curse of the ridde mirror” non è una novità relativa al 2001, ma è il titolo di una canzone presente in questo lavoro datato.

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