Jon Spencer è una bestia rock 'n roll. E' un uomo tutto di un pezzo, che trasuda tutto ciò che c'è di malaticcio e perverso nella musica. Non c'è sangue nelle sue vene, c'è solo adrenalina in eccitazione. E la musica di Spencer viene da là dentro, da quell'adrenalina. Spencer è, citando Lou, la perfetta "Rock 'n Roll Machine".

Con questo non voglio dire che la sua musica è solo un freddo revival di un tempo, Spencer ha un appiglio tutto suo, che, se vogliamo generalizzare è, o meglio, era corpo con l'anima musicale del decennio degli anni '90. Non c'è nella sua musica solo l'intento di celebrare energicamente le gesta dei vecchi bluesman e dei primi rocker delle origini della musica moderna, ma c'è nella musica di Spencer una voglia di trascendere tutti i canoni rock'n roll, non evitandoli, ma plasmandoli con un'attitudine alternativa. Ciò che ho detto lo si può osservare in numerosi altri gruppi dell' inizio dei '90 (in fondo è da lì che nasce il cosiddetto "post rock"), ma Spencer lo fece selvaggiamente, non programmando tutta la musica geometricamente a tavolino, ma autenticamente, con una violenza, con una durezza d'impatto aspra, ma esplosiva, viscerale nella sua autenticità.

E "Orange" è forse il sincretismo perfetto/imperfetto della musica di Spencer, un connubio che sbrodola, nella tradizione più live e jammata , rockabilly, blues, funk e ritmi dispari non lontani dal post, tutti di una botta, corrodendo acidamente il panorama underground '94 sull'onda dell' apocalisse, con la fine del "tu sai chi, anzi, cosa" e una ricerca bulimica di novità attraverso la modernizzazione del "classico" (dovute eccezioni).

"Orange" è non solo dimostrazione di talento e di semplicità esplosiva, ma è qualcosa di più, è un album compatto e coerente, che pur nella sua spontaneità risulta ordinato e dinamico. E non è una cosa facile organizzare un pout-pourry come si deve, ma Spencer ci riesce unendo il tutto alla sua personalità, facendo passare ogni suono, ogni melodia, attraverso le sue vene, la sua adrenalina, calibrando proiettili di rock 'n roll folgorante e esplosivo, viscido e sudicio come era un tempo. Ed ecco che la molteplicità varia e disordinata diventa uno "spontaneo assemblaggio" unitario di clichè più o meno visti, rivitalizzati da Spencer come nessun'altro ha fatto in un revival, se così vogliamo limitarci a chiamare la musica della Blues Explosion.

Basta accendere lo stereo o quello che è, e ascoltare "Bellbottoms", pura selvaggina rock' n roll, al sangue, bella arrostita. E' la Blues Explosion, dura, acida, ma vitale, viscerale. E non è che l'inizio, ogni pezzo è un tocco di classe, suona che è una meraviglia. L'incedere funkeggiante sgangherato di "Ditch", con il finale bello pomposo, con tanto di sax martoriato. La rapida "Dang" (evviva il fuzz), tagliente, cattiva, energia che si fa materia tangibile. "Very Rare", esercizio di stile, esecuzione minimale di musica. L'obliqua title track, che sintetizza l'appiglio post della band di Spencer, batteria dispara a scarnificare le chitarre zozze e grezze, qualcosa che potrebbe ricordare i Royal Trux (però al contrario di Spencer, loro mi fanno ribrezzo, non prendetela a male). La cazzona "Blues X Man", con la diatriba caustica sul finale che sa di orgia. E la spettacolare "Flavor", crossover  di funk 'n roll, con una digressione dub che ospita niente popo di meno che Beck (un' altra personailtà dei '90 che stimo), a dettare un rap scandito su una base rigorosamente lo-fi.

Tirando le somme, se volete scoprire un musicista straordinario come Spencer, direi proprio che "Orange" è il disco che incanala tutte le sfaccettature di uno Spencer istrionico, che non si limita a servire con piatti freddi la storia di un'epoca, ma che serve arrosti senza fumo che quella storia, quella che ancora è tanto idolatrata e rammentata, quella che specie negli ultimi anni si cerca di copiaincollare, la ricostruiscono dalle basi.

 

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