Nashville Skyline”, nono album in studio di Bob Dylan, prodotto da Bob Johnston, pubblicato il 9 aprile 1969 dalla CBS, compare nelle vetrine dopo quasi un anno e mezzo dal precedente “John Wesley Harding” (dicembre ’67).
Come questo, è il risultato di una irriverente presa di posizione nei confronti della critica di settore e dei fan, maturata nel tempo come reazione al comportamento di entrambi riguardo la sua vita privata e la sua immagine pubblica.

I giornali continuano a definire l’artista “portavoce di una generazione”, nonostante egli, da diversi anni, si sia già “disappropriato” di tale veste, peraltro cucitagli addosso in virtù della contingenza storica in cui comincia a muovere i primi passi (a un mero livello di pubblicazioni, mi riferisco al periodo che va dal ’62 al ’64).
Prima del ’67, già aveva stupito, per non dire sconvolto, fino al disgusto, il proprio seguito “folk”, dando una radicale direzione al proprio sound, imbracciando la chitarra elettrica, e lanciandosi in cavalcate elettriche volutamente esasperate, nuove allora, ancora sconcertanti oggi al pensiero.
Dylan inventa, a tutti gli effetti, il folk rock, genere che fino a fine anni ‘70/inizio ’80, godrà di una certa freschezza, germinando, in seguito, sottogeneri inediti grazie alla fusione con il punk e il nascente indie rock. La trilogia elettrica del biennio ’65/’66 fa perdere a Dylan molti fan, ma gliene restituisce altrettanti.

Il 29 Luglio 1966, subisce una battuta d’arresto, quando nei dintorni di Woodstock, NY, dove risiede, ha un incidente in motocicletta che lo segnerà, al punto da indurlo a un periodo di isolamento volontario.
Nell’arco del ’67 non si sente quasi per niente parlare di Dylan, che realizza, in casa, del materiale inedito con molta fatica, mentre si riprende dal fattaccio. Intanto, circolano alcune registrazioni pirata, sotto forma di bootleg (“Great White Wonder”, il primo della storia del rock), che riproducono le sue sessioni con The Band.

Non sorprende che, alla fine del ’67 (nello stesso mese in cui viene pubblicato “Songs of Leonard Cohen” – tutto un altro paio di maniche!), i fan e la critica rimangano ulteriormente scioccati, increduli a ciò che sentono le proprie orecchie: la voce di Dylan non è la stessa. L’artista, grande “troll” ante-litteram, intona il suo nuovo materiale, dalle sonorità country-rock, marcatamente tradizionale, con un’intonazione da crooner, che, di nuovo, gli vale l’etichetta di “venduto”, come ai tempi di “Bringing It All Back Home”, primo tassello della già citata trilogia elettrica. Come in precedenza, gli ascoltatori si fermano all’apparenza, non essendo pronti per le prove sottoposte loro.

Il gioco si ripete nel 1969, con maggior sintesi, in “Nashville Skyline”. L’album consta di 10 brani, e non supera la mezz’ora di minutaggio, a differenza del precedente, che toccava i quaranta. Le canzoni prendono vita negli Studi di Nashville. Dalla prima sessione non vengono fuori nastri degni di pubblicazione, mentre, già a partire dalla seconda, si vedono dei “frutti”. “Lay Lady Lay”, scritta l’anno precedente, viene elaborata.
Il grande pregio del risultato finale è che si può avvertire un’atmosfera rilassata e disincantata. Negli anni in cui la Guerra in Vietnam è al culmine, e tutti si aspettano nuove invettive e prese di posizioni politiche, l’artista, “rinato” per l’ennesima volta, delude le aspettative, ma di fatto compone un delizioso lavoro, che ne ribadisce il mestiere. Non un capolavoro, ma un bell’album di Bob Dylan.

Nonostante le critiche, ha un riscontro commerciale più che buono, toccando il terzo posto in Patria, arrivando alla vetta nel Regno Unito. Il sound è più levigato, sicuramente più accessibile.
I pezzi trainanti sono il, già citato, singoloLay Lady Lay”, diventato un vero e proprio standard ad oggi (che doveva, oltretutto, far parte della colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”, ma Dylan non riuscirà a consegnarla in tempo), e la nuova versione di “Girl from the North Country” (già inclusa in “The Freewheelin’ Bob Dylan”, 1963) al fianco di Johnny Cash. Il resto della torta non è male, ma non colpisce particolarmente. “Nashville Skyline Rag”, primo strumentale nella produzione dylaniana, rappresenta un pregevole divertissement.
La copertina è sfacciata quanto le scelte musicali: si assiste a un Dylan sorridente, che si toglie il cappello, come per salutare rispettosamente (con una certa ironia) il pubblico, sia quello che ha già, sia quello che intende, forse, conquistare, introducendolo di fatto a delle atmosfere meno “funeste”.

Bob è ormai padre di famiglia, e cerca di tenersi fuori dai guai che la sua vita precedente, da rockstar, aveva comportato. È un periodo relativamente tranquillo, quello in cui “Nashville Skyline” viene registrato, ma, se la critica continua ad appiccicargli addosso il termine “portavoce di una generazione”, i fan, nell’infastidire l’artista, non sono da meno: non sono rare le visite inopportune e sgradite, da parte di ammiratori, o di sempliciavvoltoi”, che si introducono nella proprietà di campagna di Dylan, la cui reputazione presso i vicini di casa viene minata: “I vicini di casa ci odiavano. Per loro, non ero altro che un carrozzone carnevalesco”.

Come il fortunato “Sweetheart of the Rodeo” dei Byrds (che, nel realizzarlo, si erano ispirati proprio a Bob, nello specifico a “John Wesley Harding”), “Nashville Skyline” ridà dignità alla musica country, senza banalizzarla né svecchiandola – se non marginalmente –.
Più semplicemente, pur con la sua sfacciataggine, l’artista si diverte facendo quello che gli piace, e riesce anche a emozionarsi, come nel duetto con Johnny Cash. Questi scrive le note di copertina dell’album, in cui dichiara, in un modo preciso che più preciso non si può: “Ci sono quelli che non imitano, che non possono imitare, ma poi ci sono quelli che emulano a tratti, per espandere ulteriormente la luce di un bagliore originale; sapendo che imitare i vivi è parodia, e imitare i morti è furto, ci sono quelli che sono esseri completi in sé stessi …”.
Chapeau! … sia a Roberto, sia a Giovanni.

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