La musica di Bob Dylan è stata per me una scoperta fondamentale, una scoperta resa possibile soprattutto dalla passione di mio padre per il cantautore americano. Quando dovevamo affrontare lunghi viaggi in macchina la prima cosa da prendere era necessariamente il CD di Highway 61 Revisited, nonostante le lamentele di mia madre che voleva ascoltare a tutti i costi musica italiana. A partire da quei momenti le canzoni di Bob Dylan sono diventate parte integrante della mia vita grazie a quell’alone mitico che le avvolge. Sono andato ovviamente a scoprire gli altri tasselli fondamentali della sconfinata discografia del signor Zimmermann, ma non ero ancora riuscito a godermi l’attesa di un nuovo album di inediti del vecchio Bob. Così quando è stata annunciata l’uscita di questo “Rough and Rowdy Ways ” sono stato letteralmente travolto dall’euforia e ho ascoltato a ripetizione i tre singoli (“Murder Most Foul ”, I Contain Moltitudes” e “False Prophet”) che hanno anticipato il disco. In questa recensione cercherò di essere il più oggettivo possibile, anche se sono consapevole che sarà davvero dura.
Già dai primi ascolti sono rimasto, infatti, incredibilmente colpito dall’intensità delle undici canzoni che compongono l’album. Per tutta la durata si percepisce la necessità dell’ormai settantanovenne Dylan di confrontarsi con la morte. L’incipit di “I Contain Moltitudes”, canzone che apre il disco, è così già paradigmatico: Today, tomorrow, and yesterday, too / The flowers are dyin' like all things do. Altri riferimenti a questo tema sono ancora presenti nel brano di apertura (I sleep with life and death in the same bed), ma anche in “Crossing The Rubicon”, in cui Dylan afferma di trovarsi tre miglia a nord del purgatorio e a una passo dall’aldilà, o in “Key West” luogo in cui si conserva la speranza di raggiungere l’immortalità. L’altro aspetto fondamentale di “Rough and Rowdy Ways ” è il confronto con la storia e con alcuni personaggi che ne hanno segnato in maniera indelebile il corso: si va dai generali Sherman, Montgomery, Scott Zhukov e Patton in “Mother of Muses”, omerica invocazione alle muse, a pensatori come Freud e Marx che in “My Own Version Of You”, rilettura dylaniana del Frankenstein di Mary Shelley, sono condannati alle pene infernali, fino al presidente Kennedy nella maestosa “Murder Most Foul ”. Rilasciata in pieno periodo di quarantena, nella canzone più lunga della sua carriera, Dylan, accompagnato da eleganti note al pianoforte e da archi in sottofondo, narra nella prima parte del “vile assassinio” di JFK, mentre nella seconda inizia un lungo elenco di canzoni a lui care trasformando il brano in una vera e propria ode al potere salvifico della musica in momenti difficili. Non posso negare che è stata di grande aiuto anche a me durante duri mesi che siamo stati costretti a passare chiusi in casa. Non mancano, poi, moltissimi riferimenti letterari: citazioni e omaggi a Edgar Allan Poe, Walt Whitman, William Blake, William Shakespeare e agli scrittori della Beat Generation (Ginsberg, Corso e Kerouac) si alternano tra i versi ispiratissimi di Dylan.
Dal punto di vista musicale le canzoni sono caratterizzate da arrangiamenti molto spesso essenziali che riescono a creare un’atmosfera altamente emotiva sulla quale si innesta la voce roca e incredibilmente comunicativa del nostro. Si passa così dalla tenebrosa “Black Rider”, accompagnata dal mandolino, alla ballata a passo di valzer di “I’ve Made My Mind To Give Myself To You” fino alla meravigliosa “Key West”, poggiata su una fisarmonica delicata. Non mancano, però, momenti più sguaiati come nei tre blues che caratterizzano l’album: a partire da “False Prophet”, che ricicla il riff If Lovin’ Is Believing di Billy ‘The Kid’ Emerson, proseguendo poi con “Crossing The Rubicon” e “Goodbye Jimmy Reed”, sentito omaggio al bluseman americano.
Vorrei concludere questa recensione con le parole di Nick Cave, riferite a Muder Most Foul” e a mio avviso perfette per descrivere l’intero album:

"Spero che questa non sia l’ultima canzone di Bob Dylan che ascolteremo. Forse però è cosa saggia trattare tutte le canzoni e tutte le esperienze che facciamo con l’attenzione e la riverenza che riserviamo alle ultime cose. Bere una cosa con un amico come se fosse l’ultima volta, mangiare con la propria famiglia come se fosse l’ultima volta, leggere qualcosa a un figlio come se fosse l’ultima volta, o anche sedersi in cucina ad ascoltare una nuova canzone di Bob Dylan come se fosse l’ultima. Farlo riempie ancor più di significato quel che facciamo, ci colloca dentro al presente, mentre il nostro futuro incerto è temporaneamente sospeso"

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