Credo che abbia capito tutto. E che sia il più grande.

Non una punta in un mondo di mediani, ma il migliore in assoluto in un mondo in cui siamo destinati tutti ad essere mediani.

Perché la gloria dell'acuto, del discone, dell'opera assoluta e imperitura è spesso fumo negli occhi, specchio per le allodole, piccolo cabotaggio, effetto speciale.

L'artista, sia egli cantautore, pittore, regista, scrittore, si giudica dallopera. Dall'opera omnia.

E non importa sei hai avuto il tempo di fare tre dischi o se il Signoreochiperlui ti ha regalato i minuti e gli anni per farne trenta o quaranta.

L'artista si giudica per l'arte che ha saputo mettere nella propria vita, che di fondo è poi la propria opera, ed è tutta.

È per questo che certi nostri ex grandi artisti non potranno mai pregiarsi della "A" maiuscola. Perché si son venduti, svenduti, impigriti, "televisionizzati".

Dylan no. Non l'ha fatto.

Se dal vivo il Nostro coltiva la propria autodistruzione, da quello "splendido rottame" che è, nei dischi riesce sempre a stupirci, sfornando, da qualche annetto a questa parte, un'opera più interessante e più schiettamente bella dell'altra.

E sono opere mature, figlie delle mani e della mente di un cuoco come pochi, che sa la ricetta, il piatto e la cucina. Che conosce il gusto, è figlio del Dio Gusto, e sa come farti godere.

E sa benissimo che gli ingredienti sono quelli, le pentole e i fornelli anche, e la voglia di mangiare della sala è alta ed immutata. E non è colpa dei commensali se il mondo fa sempre più pena e i grandi son rimasti così pochi e soli.

Inutile quindi sperare in un piatto nuovo, ma possibile e giusto è godere delle varianti, anche piccole, della solita grande portata.

Qui le varianti sono la splendida fisarmonica onnipresente, la voce più roca, vissuta e "chilometrata" che mai, il senso puro e profondo del blues e del folk (sono poi diversi?).

A tratti si tocca l'anima profonda del Blues, a tratti si tocca di striscio un ambiente che potremmo quasi goduriosamente definire Liscio, ed è bellissimo che sia così. Poi ci si lascia trasportare da una ballata di stordente bellezza, come se fossero passati due anni e non più di quaranta dalla prima strimpellata.

C'è il popolo, c'è l'America e c'è l'Amore nelle parole e nella musica (e nella voce) di questo gigantesco genio del Novecento, chiamato ad allietare questi desolanti anni del nuovo millennio con opere immortali poiché senza tempo.

Nessuno potrà lamentarsi dell'iper-produzione, soprattutto quando Bob avrà passato il confine, e le sue parole e la sua voce non arriveranno più, lasciandoci soli, in balia dei prevedibili ed orripilanti concerti tributo, e del prevedibile deserto roccioso che li circonderà.

Nessun epitaffio alla musica cosiddetta leggera potrà mai esser migliore di queste ultime opere Dylaniane e dilaniate.

Vere, profonde, assolute.

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