Chiedessi a Mr. D un buon motivo per sentirlo ancora mi vedrei rivolto un seccato e incomprensibile mugugno a labbra serrate, dalla consueta faccia da stronzo che campeggia sui cartonati nei negozi di dischi. Cinquant'anni di carriera forse son troppi per chiunque.

Lui è tornato troppo presto e non nego che la cosa m'infastidisca in qualche modo, quasi a non volermi scontrare con l'inconscia devozione che nutro verso l'Artista, non volerla mettere in discussione nel probabile caso che io decida di lasciare il suo disco lì dov'è, a fianco delle compilation di X-Factor.

Giro il negozio in lungo e in largo e prima di uscire lo tiro su, fissando i suoi occhi stanchi che mi guardano dal cartoncino. - "Almeno la copertina mi piace" - penso.

Senza aspettarmi niente (o forse si, ero pronto ad annoiarmi) lo metto su, e parte "Beyond Here Lies Nothing", (questa qui) blues tirato che mette in evidenza un fatto che si rivelerà poi saliente: la voce è quella degli ultimi dischi, roca e leggermente afona, ma l'impiego che Dylan ne fa la rende piacevole, perfettamente incesellata con la musica che s'è fatta più ruvida, vitale.

C'è un cuore che pulsa, batte, dietro a brani decisamente meno stanchi rispetto al consueto spettro espressivo a cui ci avevano abituato gli ultimi lavori di Robert Zimmerman (e il precedente, monotono "Modern Times" non faceva eccezione)

Ma non è fatta di semplici fattori cosmetici la maggior freschezza del disco, ma di una scrittura finalmente d'alto livello, ispirata, varia. Dylan riempie e colora le parole senza creare il solito stacco tra testi e intonazione vocale, a mio parere il vero tallone d'achille delle sue ultime incarnazioni, dove rantoli monocordi navigavano su blues scheletrici che si trascinavano senza convinzione.

C'è il blues, la frontiera, l'essenzialità del suo raffinato e immutabile primitivismo musicale, che rigetta tutte le tendenze della musica popolare delle ultime (ormai) tre decadi. Come a voler riscrivere con raziocinio ciò che istintività e impulso creativo avevano rigettato sugli infuocati '60; una riappropriazione di ciò che gli si era resa indipendente, lo "scarto" di ogni processo di produzione artistica.

E Dylan suona se stesso meglio di chiunque altro, la cupa "Forgetful Heart", con l'ettrica che s'insinua tra paure e ansie, da metafisica blues, e i sussulti insolitamente rumorosi di "Jolene" e "Shake Shake Mama" sono riassuntivi dell'ossatura del disco.

Ma quando i ritmi rallentano, nella meditabonda e agrodolce "Life Is Hard" e nella splendida e commuovente "This Dream Of You" (che riporta alla mente il lontano "Desire") che si sente quel che c'è di nuovo, l'anima dell'arte di Dylan ancora una volta viva e lucida.

Il resto sono ruggiti, sudore, e pure quell'entusiasmo che rende frizzante anche l'ennesima citazione, (una "I Feel A Change Comin On" la si è sentita decine di volte) e l'idea che Dylan non sia (più) l'artista da seguire, ma semplicemente da osservare: lui continua ad esserci, e la sua musica ne è la continua manifestazione, come il respiro, disco dopo disco.

Se poi se ne esce con il suo miglior lavoro dopo "Time Out Of Mind", c'è anche (decisamente) di che gioire.

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