Il fenomeno migratorio non è soltanto una scottante questione geopolitica mondiale patata bollente nelle mani dei vari governanti, con relativi flussi continui che richiedono di essere governati e gestiti sempre più in emergenza in un contesto sociale interno esasperato.
C’è un’altra migrazione, meno di massa e più silenziosa, ed è quella propria dell’io che crescendo sente il bisogno di approdare in un nuovo porto recidendo gli ormeggio con la vecchia terra fatta di tradizioni, vecchie facce e ricordi agrodolci. Spesso la migrazione è un mero tragitto che scorre nei flussi della propria mente, senza che venga percorsa alcuna distanza fisica.
L’ultima diaspora di Simon Greene, in arte Bonobo, è un viaggio in cui la dimensione musicale incontra quella umana, in un connubio di luoghi ed esperienze musicali più disparate. L’ultimo lavoro di Bonobo parte da questa premessa cercando di mettere a confronto diverse culture abbracciando tradizioni diverse all'interno dell'eclettico universo elettronico.

Si può sentenziare che, nonostante la carne al fuoco cotta alla griglia su “Migration” sia tanta anche troppa, non è questo il disco che vi farà cambiare opinione sul dj di origini britanniche di stanza a Los Angeles. E del resto anche la mia idea su Bonobo cambia poco in effetti pur riconoscendone il talento. Del resto le cose migliori in passato erano quelle più minimal-strumentali-jazz piuttosto che le atmosfere house da classifica o da club.
E Simon, a cui l'ambizione di certo non manca, non riesce a convincere del tutto nonostante “Migration” può vantare un paio di spot che emanano ottime vibrazioni con sinfonie ariose strumentali molto ispirate: l’atmosfera liquida che si respira all’interno della title-track, che si fregia della collaborazione al piano di Jon Hopkins, è sublime. Nulla mi toglie dalla testa che se il disco fosse stato interamente suonato, staremmo a parlare di ben altro. Del resto l’abilità del dj britannico sta soprattutto nel riuscire a creare a volte, senza rinunciare alla dinamicità, suggestivi tappeti eterei su cui spiccare il volo.
Sono infatti i momenti più ambient come “Kerala” e “Ontario” con il loro retrogusto tropicale, “Second Sun” e la corposa “Outlier” (che si produce in un ottimo beat da spiaggia) a tirare fuori un’estetica visionaria e naturale piuttosto che i prevedibili featuring pop con i vari Rhye, Nicole Miglis e Nick Murphy. L’unica collaborazione veramente riuscita è quello con il gruppo nordafricano Innow Gwana su “Bambro Koyo Ganda” che dà vita ad un felice ed inusuale esperimento etnico-tribale dal loop febbricitante, mentre i campionamenti di “Grains” emanano una forte sensazione di calore e raccoglimento.

Il giudizio finale alla fine deve confrontarsi con questa doppia paletta cromatica del progetto “Migration” tra visioni e paesaggi magnifici da un alto e prevedibili appiattimenti sulla forma-canzone dall’altro. Tante figurine in campo, un paio di numeri di classe, sicuramente più che sufficiente, ma si poteva osare ancora di più evitando i compromessi.

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