E' con vivo e vibrante dispiacere che annuncio la morte artistica di questa formazione americana di hard rock melodico dall'illustrissimo pedigree e dagli esplosivi esordi. Una conferma d'altronde: anche l'opera precedente (del 2002!) "Corporate America" suonava di un'irritante piattezza rispetto alle passate gesta. E sì che abbiamo aspettato undici anni per veder arrivare questo sesto disco di carriera, il peggiore di tutti, lontano anni luce dal bombastico esordio "Boston" del 1976, dalla splendida e forse ancor più consistente conferma "Don't Look Back" del 1978 ed anche da quella fascinosa riemersione del 1986, ancorché non priva di difetti, intitolata "Third Stage".

Tom Scholz, il factotum di questo gruppo/progetto (sul disco fa tutto lui meno che cantare: chitarre, tastiere, basso, batteria elettronica, progettazione e per un certo tempo anche commercializzazione degli speciali amplificatori ed effetti rigorosamente analogici atti a caratterizzare il suono Boston, e ancora composizione, produzione e missaggio) si è mangiato il cervello e questo è ormai acclarato. La banalità di queste undici canzoni è insopportabile per chiunque abbia nelle orecchie la magnificenza di inestimabili architetture sonore quali "Long Time", "Smokin'", "Hitch a Ride", "More Than A Feeling", "Don't Look Back", "The Man I'll Never Be", "Amanda" e diverse altre.

Eppure sono loro, i Boston... il suono delle chitarre è quello, compresso e iper distorto in maniera mirabile... ma qui non combinano nulla di buono! Per esse non si trova di meglio che farle continuamente accompagnare in stoppato, senza idee... non staccano un assolo degno di questo nome, non dominano i brani come si è sempre preteso facciano in questo gruppo. La copertina prometterebbe bene... l'astronave/città/chitarra è al suo posto, a zonzo per la Via Lattea e suggestiva come sempre, ma questi due aspetti (copertina e suono delle chitarre) sono davvero gli unici residui di una grandezza tramontata, anzi fattasi notte fonda.

Da bocciare senza meno, per prima cosa, è l'anacronistico e dilettantesco insistere con la batteria elettronica! Possibile che il plurimiliardario e celebre Scholz non trovi un batterista rock da usare in studio? Che un produttore e fonico così pignolo, innovativo ed acuto non si accorga che la sua programmazione dei ritmi è cagnesca, senza groove e senza stile, manco fosse fatta da un ragazzino nella sua cameretta da letto? Non ho nulla contro la batteria elettronica, ma va usata bene visto che è pure abbastanza facile farlo con le campionature e le tecniche di sequenza odierne: qui invece ci viene propinata con un'esecuzione così innaturale e così poco batteristica, specchio di un'arroganza e un egocentrismo deprimenti, un esempio per tutti il petulante charleston che tiene sempre la stessa apertura e gli stessi, meccanici ottavi e così facendo uccide letteralmente il ritmo.

E poi, ci fosse un assolo di chitarra degno di questo nome! Tutti piccoli e insignificanti interventi invece, e dire che il chitarrista Scholz è quello stesso che ha letteralmente dipinto quadri d'esposizione negli assoli di "The Man I'll Never Be", "My Destination", "Holyann", "Hitch A Ride", "Long Time" (qui la solista veramente è dell'allora collega Barry Goudreau, ma fa lo stesso). Stessa cosa per l'organo Hammond, uno strumento che giganteggia nelle sue mani in passati numeri quali "Smokin'" o di nuovo "Hitch A Ride", mentre qui latita ed è per larga parte soppiantato da un insignificante pianoforte.

Nessuna delle canzoni si eleva da un'imbarazzante mediocrità, pure da un retrogusto di già sentito specie per chi è ben familiarizzato col repertorio Boston. I molti cantanti coinvolti (anche il povero Brad Delp, suicidatosi ormai sette anni fa ma qui ancora presente, seppure la sua voce non prenda neppure per una volta le angeliche e sublimi note acute di un tempo) deframmentano e spersonalizzano la proposta musicale, in particolare quando l'ugola è quella assai country (!) di una donna, la bassista (ma solo dal vivo) Kimberly Dhame.

De Profundis, dunque: c'è solo da rassegnarsi definitivamente al fatto che da vent'anni a questa parte questa gloriosa entità musicale, pioniera del cosiddetto AOR (l'esordio del 1976 aveva già in sé tutte le caratteristiche di questo genere tipicamente ottantiano), maestra di arrangiamenti e suoni talmente efficaci da elevare ad inni melodie e giri armonici non esattamente geniali, è piombata senza rimedio in un cono d'ombra sia qualitativo sia, com'è giusto, commerciale.     

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