"Alarm Agents" si affaccia sul mercato dopo quasi 4 anni di silenzio e segue il non esaltante ma tutto sommato dignitoso
"All Pigs must Die", album che aveva deluso molti fan della Morte in Giugno e che aveva fatto temere un'incipiente stasi creativa del buon Douglas Pearce. Come allora, a dare man forte al nostro ritroviamo Boyd Rice, che per l'occasione si fa carico addirittura di tutte le vocals, relegando Pearce a ricami di secondo piano. Aspetto, questo, che fa del presente tomo un esempio un po' anomalo nella discografia del gruppo, avvicinandolo piuttosto alle sonorità di progetti che vedono coinvolti i due, come Boyd Rice and Friends, Wolfpact e Scorpion Wind, del quale ritroviamo qui la stessa formazione, completata dal percussionista John Murphy (fondamentale il suo contributo!).
Seppur nemmeno lontanamente paragonabile all'illustre passato del gruppo, non ci troviamo innanzi ad un discaccio. Io amo definirlo l'album del dopo 11 settembre dei Death in June, poiché mi pare che le atmosfere che lo pervadono risentano in qualche modo del clima di instabilità, di conflitto e di terrore in cui versa oggi la situazione internazionale (determinante forse l'influenza dell'americano Rice, che è una vita che ci propina le teorie darwiniste della selezione naturale applicate alla società e che vedono come leggi di natura lo scontro fra civiltà, la lotta dell'uomo contro l'uomo, il diritto del forte di prevalere sul debole ecc., e, adesso che il resto del mondo pare si sia allineato al suo credo, me lo immagino più elettrizzato che mai!).
Sarà solo un'impressione, fatto sta che ci ritroviamo innanzi ad un'opera fottutamente apocalittica, in cui, per la prima volta, la musica non vuole più essere un affresco dell'animo tormentato del suo leader, ma l'immagine di un mondo in crisi, in fase di disgregazione e prossimo alla sua fine.
Questa fine è rilevabile nei segni, gli "agenti d'allarme", che squarciano l'equilibrio instabile di un mondo che nonostante tutto ci appare, in tutta la sua ipocrisia e superficialità, ancora accogliente e rassicurante.
Non a caso l'album si apre proprio con il suono di una sveglia, un chiaro monito a distoglierci dal nostro sopore e renderci conto della gravità della situazione in cui versiamo, della realtà in tutta la sua crudezza. Ma soprattutto che il bengodi non durerà per sempre! Ma non solo, a simboleggiare questi segnali che la realtà ci invia e che ci dovrebbero destare dal nostro stato di catalessi, ma che noi non vogliamo vedere, abbiamo il canto dei gabbiani, che insieme all'incresparsi delle onde, ci accompagna per tutto l'ascolto. Gabbiani che annunciano la tempesta, mentre il mare, il sole e la luna sono il simbolo di una natura incontaminata e pura a cui si guarda con estrema nostalgia, ma anche con paura, poiché in natura non esiste il bello e il brutto, il buono e il cattivo, ma solo leggi spietate e cieche, capaci di spazzare via tutto.
Un disco quindi fatto di contrasti: la quiete di un rassicurante passato, il tuonare di un burrascoso futuro, l'approssimarsi dello scontro, la paura, la tensione ma al tempo stesso l'estetica della lotta, la necessità di affrontare e non subire la fine. Lo dico per fugare ogni dubbio: ci ritroviamo innanzi ad un disco parlato (non cantato!), nel pieno stile degli album che vedono protagonista Rice. Riconosco che ciò possa essere considerato un grosso limite, tuttavia mi sento di dire che il suo recitato, visionario e decadente, non risulta appesantire più di tanto il lavoro, risultando sempre brillante e pieno di pathos, in piena sintonia con il mood apocalittico dell'album.
Il fatto poi che le parole vengono ben scandite, rende possibile la comprensione delle liriche, che fortunatamente risultano epurate dei contenuti più estremi e destroidi che ci si potrebbe aspettare: visioni decadenti e profetiche, a tratti poetiche, a tratti velate da un'impenetrabile simbologia, che ben esprimono l'attitudine misantropica e pessimistica dei due, senza però mai scadere in becere invettive razziste e fasciste, a cui ci ha abituato il personaggio in questione. Il corpus sonoro dei Death in June del 2004 è più tipico che mai e si compone di chitarra acustica e tastiere, ricordando non poco le atmosfere di dischi come "But, What Ends When the Symbols Shatter?" e "Rose Clouds of Holocaust".
È la poetica delle fine, che Douglas mette al servizio dell'amico, senza troppo spremersi, a dir la verità: certo, sono presenti melodie davvero accattivanti, ma è anche vero che sono gli stessi giri di sempre, che oramai il nostro ci ripropone da troppo tempo. E lecitamente qualcuno (non il sottoscritto) potrebbe stufarsi.
Le song sono intervallate da brevi intermezzi (il rumore del mare, il canto dei gabbiani, dialoghi sul senso della vita), una quiete che viene squarciata all'improvviso da incursioni rumoristiche e da episodi che rivelano un malessere sottocutaneo.
Folk song in perfetto stile Death in June si alternano agli assalti sonori tipici dei Non, come a dimostrare il perfetto bilanciamento delle due personalità nella realizzazione dell'opera in questione. Al primo filone appartiene senz'altro l'efficace opener "Black Sun Rising", epica nel suo incedere, con i controcanti di Douglas ad impreziosire il cantato stanco e maledetto, in pieno Jim Morrison style, di un Rice in stato di grazia. O anche l'apocalittica "Storm on the Sea", forse il momento cardine dell'album, anch'essa epica nel suo incedere, grazie anche al fantasioso lavoro di Murphy. Al secondo filone appartengono invece industrial/noise song come la minacciosa e belligerante "Deeper than Love", che non stonerebbe in un album come "Might!" dei Non, o l'angosciante ed ossessiva "Are you out There", dominata dall'alienante cantilena di Douglas. Il citar mediorientale di "Get Used to say No!" richiama invece atmosfere da Jihad.
Purtroppo non tutto l'album viaggia sugli stessi livelli, e così, ad una prima parte tutto sommato piacevole, segue una seconda meno ispirata e più prolissa, dominata da episodi privi di mordente e ridondanti e che poco aggiungono a quanto detto in precedenza (e dove Douglas appare meno ispirato, pure le spoken vocals di Rice stancano). "The Man who Laughs", una risata in loop che si ripete per vari minuti, suona addirittura come una presa in giro.
Che dire, un disco consigliato a chi non pretende troppo dalla vita o che magari già conosce ed apprezza i lavori di Boyd Rice. Per tutti gli altri, una cosa agghiacciante, soprattutto se accostato ai capolavori del gruppo. Per i più pessimisti, un segnale davvero inquietante che non solo conferma una certa stasi creativa di Pearce (già a corto di idee da un bel po' di tempo), ma che palesa oramai una evidente svogliatezza nel portare avanti il progetto da parte dell'artista stesso, che sembra trovarsi più che mai a suo agio nelle lande australiane a gingillarsi coi koala.
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