In rapporto al suo talento musicale, Eno è uno che ha avuto un grandissimo culo, non c’è dubbio. Ho appena divorato la sua biografia nel dettaglio ma non cambio idea. Pensate che all’inizio il ragazzo non sapeva suonare neanche la clavietta a scuola ma poi… Brian Peter George St. John le Baptiste de la salcazzo, faceva disegni più o meno come li facevo io, abbastanza male, e sognava una vita da rockstar. Più o meno come la sognavamo tutti. Poi su un treno, invece che il controllore lui ha incontrato Andy Mackay e poi Bryan Ferry. Detto fatto, ha girato due manopole di un sintetizzatore giocattolo che si è costruito da solo con il Bostik e la plastilina e tutti hanno gridato al miracolo! Incluso il miglior chitarrista al mondo, un certo Robert "King Crimson" Fripp che a quesi tempi per fortuna non si era ancora bevuto il cervello per quella tettona di Toyah Wilcox. Boh, che dire, in un’attimo il nostro Brian Eno si è trovato proiettato, con le piume in testa come Malgioglio, in diretta tv a Top of The Pops ed ha spaccato di brutto!

Poi è venuto tutto il resto. Ha conosciuto gli “altri”, tutti sempre irrimediabilmente attratti dalla sua sfuggente personalità e dal suo genio visionario, supposto ma mai così evidente. Una roba tipo “il culo di Sacchi” insomma. E nella metafora calcistica, possiamo affermare che c’è stato un fatidico momento che avere Brian Eno in squadra significava vincere facile. Chiedete agli Ultravox o ai Devo che l’hanno fatto passare una sera dal loro studio per i saluti e se lo sono trovati nei credits del loro esordio come produttore. Ma lui non aveva fatto nulla, esattamente come coi Television di Tom Verlaine che lo hanno poi rinnegato. Per non parlare poi dei meno celebrati ma bravissimi Urban Verbs che hanno fatto volentieri a meno dei suoi consigli alle soglie dell’album d’esordio. Si certo, poi sono venuti i grandi amori, quelli veri. E allora l’evidenza del suo talento sfuggente è sembrata lampante. Mi riferisco alla venerata “trilogia” con Bowie, alla partnership “santa” con il genio assoluto David Byrne e alla “liofilizzazione” degli U2. E da lì in poi è stata tutta discesa, fino al traguardo di Sanremo… E’ storia ormai, una carriera di successi incredibili per questo Leonardo Zelig del Rock, capace di battezzare con nonchalance la no wave newyorkese del puzzolentissimo CBGB’s e solo qualche anno dopo (far finta di) cantare, a Modena col Lucianone nazionale, a due metri dal Papa. Tutto con assoluta leggerezza e senza avere mai veramente scritto una mezza canzone di successo.

Adesso voglio contraddirmi subito però, perché c’è stato un momento topico nel quale Brian "non so suonare una bella cippa" Eno scriveva anche grandi canzoni o forse solo se le immaginava dato che non sapeva mettere in fila due accordi. A quei tempi, intorno al 1973, addirittura Brian avrebbe “semplicemente” potuto diventare un grande cantante ed interprete rock, un Marc Bolan giusto un pochino meno caciarone. E dire che era appena stato maltrattato dai Roxy Music, una storia che sanno tutti, perché ritenuto ingombrante ed inutile da Brian “for your pleasure” Ferry. Peccato, perché il "nostro Brian" in quel momento era brillantemente sintonizzato sulla lunghezza d’onda del Glam Rock e presto lo sarebbe stato anche sulla New Wave e sul Punk, precursore casuale o consapevole delle sonorità che verranno. Il suo album di esordio “Here come the Warm Jets” testimonia in pieno questo momento e di questo magnifico disco vorrei tornare a scrivere, da una prospettiva scevra della consueta riverenza per il personaggio ma non per questo meno analitica.

In verità, vi concedo un primo livello di lettura che trovo comunque corretto. “Here come the Warm Jets” è una raccolta di canzoni abbastanza convenzionali, in parte derivative, sotto le quali si intravede, in pectore, la potenzialità del personaggio. Punto. Subito dopo c’è però un secondo livello, e da questa prospettiva, più attenta e consapevole, si scoprono i prodromi che partoriranno il “mito Eno”. Eccolo, l'uomo capace di coniugare con semplicità lo sperimentalismo e la citazione, le nacchere col violoncello, le paperelle della sua vasca da bagno con i jet supersonici, lui che oggi li detesta e viaggia solo in bicicletta. Da un lato c’è l’artista canonico che scrive, canta, suonicchia e si trucca come una spogliarellista davanti allo specchio. Diciamo un Renato Zero con le mesches. Dall’altro scopriamo per la prima volta il visionario assoluto, colui che ha già capito dove andrà a finire la musica rock e si permette sberleffi ai critici e compagnia bella. Gli amici (tanti) che gli stanno intorno durante le registrazioni di “Here come the Warm Jets” fanno il resto. Il Frippone prima di tutti, il dio timido della chitarra. E John Wetton, Paul Rudolph, Simon King, Robert Wyatt ed anche naturalmente Phil Manzanera, Andy Mackay e Paul Thompson, tutti in libera uscita dai Roxy. Non so se sia stato il caso, il già citato deretano sacchiano o una semplice intuizione. Ma la libertà che Eno lascia ai suoi ospiti, anziché trasformarsi in anarchia diventa amalgama, coesione, compattezza sonora. L’intro di “Needles in camel’s eye” è già una sentenza. E’ un’apertura importante dove il muro di chitarre e sintetizzatori sta sullo stesso piano della voce multitraccia di Eno e l’effetto finale conquista e travolge. Un’attimo dopo, il divertissement di “The Paw Paw Negro Blowtorch” si fa rapidamente canzone, vera ed intrigante. E quando entra la chitarra bizzosa è spettacolo puro, con Eno che riesce addirittura a piazzare un’assolo a due dita di sintetizzatore. E non è finita qui. In dissolvenza si fa strada un loop di sintetizzatore che introduce il riff di "Baby's On Fire”, quella che resterà per la maggior parte di critici e fans il pezzo forte dell’album intero. In questa song vagamente “motorik”, Eno si fa interprete vocale come mai lo era stato prima, sperimentando il suo cantato vagamente nasale con un tono il più aggressivo possibile. La canzone cresce fino al decisivo assolo di chitarra di Mr.Fripp, non un semplice assolo, ma una sferzata elettrica che riduce letteralmente in cenere l’ascoltatore, più o meno come un’alabardata spaziale di Goldrake. Eccoci, l’avanguardia entra sommessamente nelle tracce del disco ma lo fa in punta di piedi, insinuandosi tra una canzone e l’altra senza mai stravolgerne il senso compiuto voluto dall’artista. All’approccio vagamente dadaista dei testi fa riscontro, senza vergogna, la vocazione pop del protagonista e le melodie memorabili che ne scaturiscono. Come ad esempio nella successiva "Cindy Tells Me”, la mia preferita. Saliamo tutti sul pulmino della scuola e torniamo al mood degli anni '50, roba sulla quale gruppi come i Bay City Rollers hanno costruito una carriera (breve per fortuna). “Cindy” è un ipotetico singolo che avrebbe potuto stare al numero uno su Marte per settimane e settimane, come avrebbe potuto esserlo “Seven Deadly Finns” qualche tempo dopo. Eno però non si accontenta della serenità melodica del pezzo e decide di disturbare lo stato d'animo e la purezza pop sapientemente elaborati, estrapolando un feedback distorto dalla linea di chitarra e frapponendolo davanti alla chitarra stessa, per un’altro assolo che anche in questo caso diventa memorabile. Certo che le indovina tutte sto “Mister” avrebbe detto il compianto "bisteccone". Il pezzo successivo fa nuovamente sul serio e flirta apertamente con l’idea di “free music” che Eno aveva in mente. “Driving me backwards” si sviluppa all'inizio pigra ed indisponente su un paio di accordi risicati, uno scomodo letto musicale sul quale, un cantato da karaoke costruisce un’inaspettata atmosfera di tensione. Poi arriva il chitarrone totale di Fripp che spariglia nuovamente le briscole. Fine del primo lato, tanta roba. Abbiamo capito di non aver capito. E la forza del disco è proprio questa, non sai mai cosa aspettarti dalla canzone successiva.

Il lato due del disco si apre in maniera rassicurante con la malinconica filastrocca pop di “On some faraway beach”. Siamo al mare ovviamente ed abbiamo i piedini nell’acqua fresca e stiamo tutti con gli occhi chiusi a sognare su quelle note di pianoforti (si perché si dice che siano ben 27 sovrapposti!). Il tutto in un crescendo costante, fino all’apoteosi finale, quando la voce di Eno rompe gli indugi e si impadronisce della canzone in maniera un pò albanesca. Altro che “Bogus Man”, qui la simmetria con la quale Brian sbiadisce progressivamente i “suoi” sintetizzatori in ragione del pianoforte e delle sue note residue, sono un anticipo gratuito di quella musica con cui riempirà aeroporti, sale cinematografiche e stazioni lunari. Sicuramente più aggressiva è la successiva “Blank Frank” dove la chitarra di Fripp, filtrata ovviamente dai macchinari di Eno, costruisce una melodia scomposta e psicopatica, esattamente come il personaggio raccontato dal testo. “Blank Frank” sarà anche il pezzo di apertura del brevissimo e bistrattato tour inglese del ’74, dove i Winkies tenteranno invano di suonarla decentemente, ascoltatevi il penoso tentativo su YouTube…Il batterista dei Roxy, Paul Thompson, sale sugli scudi e fornisce il suo imprinting muscolare alla successiva “Dead Fingers Talk”, una marcia atona per voce lontana e distaccata. Dicono che il pezzo parlasse male di Brian Ferry ma se lo fa, lo fa in maniera totalmente subliminale perché è veramente difficile da cogliere. La canzone successiva, "Some Of Them Are Old" ha una struttura complicata, sotto un’apparenza di semplice cantilena. Ad un’orecchio attento, non sfuggirà l’esercizio di accumulo di tracce e multitracce di sax e di vocalizzi, l’improbabile assolo di dobro sintetizzato ed il finale rarefatto e quasi immobile. L’outro diventa intro e fa da ouverture all’imponenza della traccia ultima, intitolata come il disco tutto “Here come the Warm Jets”. Ed eccola dunque l’aria torrida dei motori, quella che che se ci passi davanti ti fan saltare il parrucchino e la dentiera. Annunciata da un sintetizzatore imbizzarrito, “Here come the Warm Jets” è un mantra futuribile e futuristico. Eno se l’era immaginata calda e impetuosa, proprio come i motori di un jet. E così si rivela. Le chitarre incalzano per un po' prima che la batteria di Simon King si faccia strada in lontananza, quasi appartenesse ad un’altra canzone che qualcuno sta suonando nella stanza attigua. Poi anche il drumming si affievolisce, lentamente, lasciando che Eno declami i suoi enigmatici versi pieni di speranza e promesse, almeno così io li ho intesi. E’ una canzone travolgente “Here come the Warm Jets” che chiude un disco a mio parere molto più intenso di quanto possa sembrare ad un ascoltatore superficiale che ne cogliesse solo il brillante lato estetico/musicale. E non sto cercando di caricarne l’interpretazione ad ogni costo. Ogni volta che lo ascolto mi sembra così gravido di paesaggi sonori lontani, di dettagli maniacali e minuziosi, di sfumature e densità. La verità è che “Here Come the Warm Jets" rivela qualcosa di nuovo ad ogni ascolto e prepara il terreno per una straordinaria carriera musicale. E poi mi piace tantissimo quell’idea, forse poco originale ma sincera, che sosteneva una musica libera e coraggiosa, ostinatamente legata a una qualche forma di rivoluzione, che fosse musicale, sessuale o forse solo stilistica. In questo “Here come the Warm Jets” si rivela ancora oggi un album estremamente audace, nella misura in cui ha tanto ispirato le generazioni. Il vero dono di Eno è stato infatti quello di liberare dalle catene della convenzione la creatività nei musicisti che seguirono il suo esempio, coloro che erano aperti ad applicare la loro intelligenza alla musica senza limiti di eclettismo. “Here come the Warm Jets” è un album che ha costruito un mondo parallelo da esplorare, con le sue canzoni così diverse l'una dall'altra che hanno avuto la capacità o forse solo la casualità di fondersi insieme in maniera veramente impressiva. Un disco unico che ho amato moltissimo, nel quale le tradizioni della musica rock dei seventies vengono rielaborate con l'idea stessa di andarne oltre e smantellarle. Un tema trasversale che crea giustapposizioni anziché coerenza, insicurezze anziché assiomi, ricerca ed esplorazione anziché modelli certi. Resta l'evidenza del gran culo che Eno ha avuto su quel treno, altrimenti staremo qui a parlare di gnocchi invece che di capolavori della musica rock...

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