Budi Siebert è un autore semi-sconosciuto in italia (se non al pubblico molto di nicchia), e che fa parte, insieme ad altri musicisti come Friedemann, Ralf Illenberger e Martin Kolbe, della cerchia tedesca di musica strumentale/fusion, edita da etichette come la Biber, Inakustik o della più famosa Narada.

Il disco è del 1988, nonostante presubibilmente sia entrato nel mercato extra-tedesco solo una decina di anni dopo. Siebert è un polistrumentista talentuoso (suona sax, marimba, vibrafono, tastieree a altri strumenti a fiato), ed ha collaborato nei tour live in giro per il mondo del grande arpista Andreas Wollenweider.

Detto questo, "Bridges" è un disco molto vario ed interessante, è musica strumentale molto ritmica con accenti jazz-fusion. I brani hanno una connotazione descrittiva, tanto che nel magico libretto allegato al cd (indecifrabile se non si conosce un po' di tedesco) Budi descrive gli spunti che lo hanno portato alla stesura dei pezzi. Il brano iniziale è una ridda frenetica intorno ad un bel giro di tastiere e percussioni, con un azzecato intervento della chitarra semi-acustica di Illenberger. Il sound-collage di "Ein Sonntagmorgen" sfuma in Alsace, un bel pezzo ispirato all'omonima regione francese, dove gli arrangiamenti degli archi lasciano poi posto ad una compozione più strettamente fusion.

"Into it/intuit", come pure "Sing" sono brani più tradizionali, il primo caratterizzato da un bel giro di piano e dall'intervento del flugelhorn, il secondo con il sax di Budi e arrangiamenti più elettronici; "Wintertanz" è forse il brano più minimale (sax-piano-chitarra) mentre "Waiting for the Storm" e "Hard Times", presentano un sound più ricco e variegato, entrambi con un bel giro armonico inziale di tastiere che cattura l'attenzione.

"Herzeleid" è la punta di diamante dell'album: l'iniziale introduzione con lo "snare" della batteria lascia posto ad un brano orecchiabilissimo, da ascoltare sotto l'ombrellone, dalle cadenze ritmiche accattivanti. Chiude infine l'album una danza che fa del connubio di basso e marimba il punto di forza, fino al finale sfumato. I due brani centrali, forse quelli un po' meno riusciti ma comunque apprezzabilissimi, sono un tentativo da parte dell'autore di avvicinarsi a sonorità latine, talora caraibiche.

Al di là delle singole tracce, Bridges è un disco da apprezzare unitariamente, per la ricchezza di sfumature strumentali, per gli arrangiamenti orchestrali mai pedanti e in stile anni settanta, per la grande cura del sound e degli effetti sonori, per le ritmiche estive seppur complesse. E' consigliato a tutti coloro che amano la musica strumentale moderna, essendo un disco che non si propone di essere troppo colto ma di incurosire l'ascoltatore con numerosi colpi di scena. Rappresenta il tentativo di molti autori moderni di coniugare il proprio bagaglio classico con improvvisazioni jazz, ma non rinunciando a melodie pop/rock e influenze latine: insomma, crossover.

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