Recensire un album di Burzum non è facile, non è come recensire un qualsiasi album black metal. Al di là dell'ascolto soggettivo di ogni suo album ci sono moltissime cose che oggettivizzano. Al di là del fatto che quando è nato il suo progetto nel 1991, il black metal era praticamente nella sua fase embrionale, proprio in questa data lui si è subito posto in un’ottica di sperimentazione. Al di là del fatto che è stato il primo ad utilizzare testi in lingua-madre ed a rivoluzionare i testi che usualmente trattavano ancora di tematiche death metal e scialbe sensazioni terra-terra legate all’oscurità e al misticismo. Al di là che è stato il primo a portare con se uno spirito nazional-romantico prendendo gli artwork del pittore norvegese '800esco Theodor Kittelsen che poi fu tremendamente preso di mira in maniera altrettanto coerente da band norvegesi e svedesi e in maniera alquanto incoerente da band francesi e italiane. Al di là del fatto che il metal estremo si basava ancora sulla semplicità del punk e del pop con le classiche metriche rit1-rit2-chorus-rit1-bridge-solo-chorus al massimo arricchite di altri 2-3 soli e di 2-3 bridge, lui è stato forse il primo a scomporre la metrica della canzone e a tornare a un approccio anni '70 (non me ne vogliano i fan –incluso me stesso- dei King Crimson e dei Caravan). Al di la che dal 1991 al 1993 abbia composto quattro album completi uno più bello dell’altro…

…“Det Som Engang Var- Ciò che c’era una volta”, è il secondo album del progetto Burzum e il primo che comprai. Una voce in quel modo non l’avevo mai sentita e posso assicurare che non si toglierà dalla mente con facilità. Molti dicono che la voce di Kurt Cobain sia l’urlo di una generazione. Prendendo questa similitudine io posso dire che la voce di Varg è l’urlo di disperazione di una nazione sfregiata. Nei testi di tutti i suoi album ci sono tematiche convergenti alla situazione nordica e alla loro perdita forzata dei propri arcaici legami spirituali e subito si può capire dalle prime parole di Key To the Gate, affiancate a melodie eternamente distorte (Varg è famoso per non aver mai raccordato la sua chitarra, i suoi primi due album sono famosi per l’incapacità di rifarli sonoricamente identici). Un assolo struggente conclude la canzone lasciando spazio alla seguente En Ring Til å Herske anch’essa liberamente interpretata dalle saghe di Tolkien come già era accaduto nel primo album. Un’altra magnifica e semplice canzone in mid-tempo “Lost Wisdom” tratta gli enigmi della vita “Mentre possiamo credere che il nostro mondo, la nostra realtà è quello che è, è tutto tranne una manifestazione dell’essenza”. Dopo un paio di strumentali, l’ambient “Han Som Reiste” e la malinconica “Når Himmelen Klarner” l’album ci lascia all’ultima canzone cantata “Snu Mikrokosmos Tegn” tremendamente cupa e tremendamente espressiva. Il disco si conclude con un outro nella stessa linea dell’intro, però con una melodia che verrà poi ripresa nell’ultimo Hlidskjalf.

La particolarità degli album di Burzum è che ognuno è a se stante, ma con concetti che continuano dal primo fino all’ultimo; il songwriting è diverso in ogni disco, le melodie sono diverse in ogni disco, ma quella sublime musica e quei testi apollinei che celano quella malinconia velata ci sono sempre ed è forse questa la ragione che ascoltandoli riesci a dire che sono totalmente fuori dal black metal, sono su un altro pianeta, c’è qualcosa di troppo grosso dietro per essere agglomerati nella massa.

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