“Psychic powerless” è uno dei dischi rock più stravaganti degli anni '80.

I Butthole Surfers sono una band texana assai difficile da catalogare, per la loro indefinibile miscela di hardcore, psichedelia, industrial e roots-rock. L’unico comun denominatore del loro stile è l’aspetto demenziale, parodistico e surreale, che li avvicina ai grandi (e talora misconosciuti) eccentrici del rock, come Red Crayola, Holy Modal Rounders, Pere Ubu ed altri.

Forse, il difetto di questo album (il loro primo LP, datato 1985) è l’incapacità di sintesi: si ha l'impressione che tutta questa creatività goliardica, questa deviante attitudine a fare a pezzi la semantica dei generi rock tradizionali, questa estetica del brutto, dell’eccessivo e del delirante resti un po' fine a se stessa, a differenza, per esempio, di quella dei Pere Ubu, che si avvalevano di una reinvenzione grottesca del garage-rock per esprimere il disagio dell’era post-industriale. La proposta dei Surfers resta invece un gioco: creativo sì, provocatorio certamente, ma pur sempre un gioco.

L’album si apre con due catastrofiche valanghe sonore, “Concubine” e “Eye of the Chicken”: la prima è una perversa cavalcata dall’incedere implacabile di uno schiacciasassi, disturbata dalla chitarra gracchiante di Leary e dai lamenti bestiali della voce di Haynes, filtrata attraverso un megafono; la seconda si ricorda della lezione dei Chrome e imbastisce così un ossessivo assalto frontale a base di elettronica stridente. In “Dum Dum” sale in cattedra la sezione ritmica, con il basso perforante di Kramer e la batteria tribale di Teresa Taylor protagonisti di vertiginose e parossistiche accelerazioni.Woly Boly” risente invece dell’influenza dei Cramps e del loro rhythm’n’blues macabro e demoniaco. “Negro Observer” è forse il brano più accessibile e soft: un’arpeggio di chitarra, un sax scheletrico e demenziale, il canto sarcastico di Haynes (versione paranoica e tragicomica dello sfogo monocorde di Johnny Rotten) convergono nel finale in uno stordente ma morbido magma psichedelico.

Il disco entra ora nel vivo, coi suoi pezzi forti. La title-track è un hardcore supersonico, che lambisce la follia pura negli improvvisi stop’n’go della parte finale; oltre alla vena goliardica (il vociare continuo in sottofondo durante il ritornello, al posto dei consueti cori di rinforzo), quello che distingue questo brano dal canonico hardcore della scuola californiana è l’assenza di un sound roccioso e aggressivo: la chitarra di Leary è di gran lunga più vicina al rumorismo caotico e sfilacciato di un Mayo Thompson piuttosto che alla ferocia e alla compattezza di un Gregg Gin. “Lady Sniff”, col suo riff scordato, è lì a confermarlo: il brano, parodia del southern rock con Haynes che pare voler fare il verso a Lemmy, si avvale di un affascinante corredo sonoro di rutti, pernacchie ed altri suoni “concreti”, che, usati come contrappunto al riff, costituiscono la vera cifra stilistica di una canzone tra le più oltraggiose della storia del rock. “Cherub” è forse il capolavoro del disco: 6 minuti di riverberi barrettiani e improvvise impennate, sorretti da una ritmica ipnotica e perforati da disturbi elettronici e tormentati conati vocali; con questo brano i Surfers traghettano la psichedelica acida dei sixties nell’era dell’industrial. Nell’ultima parte del disco, si susseguono il vertiginoso surf/tex-mex di “Mexican Caravan”, con le lancinanti staffilate di Leary, il caotico funk-rock di “Cowboy Bop”, in cui ricompaiono il sax e il megafono, con un altro baccanale di chitarra e il blues scalmanato di “Gary Floyd”, memore della lezione di Captain Beefhart, maestro dei tempi spezzati e dell’avant-rock più grottesco e selvaggio.

I paragoni con Beefheart, Red Crayola o Pere Ubu sono forse fuori luogo: ma “Psychic Powerless” resta una minera di idee e un inno all’eccentricità e all’irriverenza.

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