Dopo l’entusiasmo con cui nel 2013 ascoltai e recensii “You Have a Chance” mi chiedevo quando i Camelias Garden dell’amico Valerio Smordoni avrebbero pubblicato una nuova release. La risposta è in questo intenso e prolifico 2015. Il primo lavoro ebbe un riscontro non indifferente sul web, ricevendo commenti molto positivi e permettendo alla band perfino di arrivare a comparire momentaneamente nella striscia delle band più popolari su Progarchives.

Smordoni (che leggerà la recensione) ora torna con una nuova line-up ad accompagnarlo ma con la stessa voglia di trasmettere freschezza ed emozioni. Stavolta però non abbiamo fra le mani un vero e proprio album ma dobbiamo accontentarci di un EP; soltanto 6 tracce per una durata complessiva di 29 minuti e mezzo. Solitamente c’è spesso qualcosa che mi porta a snobbare questo tipo di pubblicazioni, probabilmente le considero come piccole produzioni non prese seriamente da chi le realizza, come raccolte di scarti, come roba del tipo “sì, abbiamo qualche nuova canzoncina ma non abbiamo lo scazzo di realizzare un album, di farci qualcosa di serio attorno ad esse, giusto farvele sentire”, come tasselli non molto importanti della produzione e non determinanti nell’analisi dell’evoluzione della band; tuttavia faccio spesso eccezioni con le band a cui sono particolarmente legato (ho ascoltato ad esempio quello recentemente pubblicato dai Riverside); qua si trattava addirittura di un amico lontano del quale avevo ascoltato appassionatamente l’album d’esordio ed ero in ogni caso esaltato dall’idea di poter ascoltare nuovo materiale.

La band continua a muoversi a metà strada fra l’indie-folk moderno e il prog-rock classico aggiungendo e modificando però qualcosina, come dimostrato dall’uso della voce alterata in alcuni brani, da una maggior presenza della chitarra elettrica - che va quindi a spezzare un po’ la tradizione più marcatamente acustica sulla quale la band era inizialmente fondata - e perfino qualche timidissimo elemento elettronico ad affacciarsi. Mancano però gli innesti di flauto, di violino o violoncello che davano quel tocco in più nel disco d’esordio; in tutti i sensi ci sono cose che arrivano e cose che vanno. Tuttavia anche qui non si assiste ad una vera e propria fusione fra i due generi (che secondo me farebbe fare alla band il vero salto di qualità) bensì ad un influenzamento dell’uno sull’altro, con risultati comunque brillanti così come brillante e limpida è la produzione, che rende il sound tremendamente nitido, pulito e coinvolgente.

Diciamo che potremmo suddividere l’EP in questo modo: due brani più puramente folk e acustici, due brani più “elettrici” e decisamente lontani dal folk e due che fondono in qualche modo i due generi. Nella prima categoria rientrano senz’altro “Rise” e “Red Light”: pennate acustiche energiche nella prima, la seconda invece è più delicata e sognante con un lavoro tastieristico tanto vintage quanto brillante, quell’emulazione di vecchi organi sembra veramente catapultare la band in un’atmosfera più che mai anni ’60.

Decisamente devianti dall’influenza folk risultano invece “Making Things Together” e soprattutto “Useless”: la prima è senz’altro il brano meno stupefacente e forse più “ordinario” del lotto, essenzialmente incentrato su una vivace chitarra elettrica e caratterizzata da un buon crescendo di mellotron nella parte finale, la seconda invece, totalmente estranea all’influenza folk e totalmente spoglia di parti acustiche, si butta a capofitto sul puro prog mostrando una band in gamba anche in questa veste (come già si notava nel disco d’esordio con “Mellow Days”); dominata dagli accompagnamenti tastieristici dal sapore orchestrale ha in realtà come punto di forza le sue enfatiche linee di basso, che danno il meglio soprattutto nella parte centrale più movimentata, dove tra l’altro viene offerto anche un bellissimo loop elettronico in crescendo quasi paragonabile a quello udibile in pezzi come “On the Run” dei Pink Floyd, “Isolation” degli Ayreon o “Take a Bow” dei Muse.

E poi ci sono i due pezzi più etichettabili come prog-folk. “The World Inside You” pende decisamente dalla parte del folk, con ancora veloci pennate acustiche, mi viene subito in mente una “Wind at My Back” degli Spock’s Beard, stesso stile chitarristico e stessa cassa che batte ma tutto più veloce e con un approccio più folk, ma il brano sa anche evolversi e cambiare ritmicamente mostrando quindi anche una vena prog, seppur non proprio marcatissima. Ma il vero piatto forte è rappresentato dalla title-track “Kite”: qui vi è davvero la perfetta sintesi di tutto ciò che i Camelias Garden sono; una prima parte chiaramente di estrazione folk, prima con brillanti arpeggi acustici, poi più movimentata, al limite del country, con energiche schitarrate acustiche ed elettriche che si sovrappongono; la seconda parte invece propone un interessante crescendo di chitarra elettrica che catapulta a tutti gli effetti la band nel post-rock (genere molto amato da Smordoni, nella trasmissione che conducevamo insieme dedicata al prog infilavamo abitualmente un brano post-rock in scaletta), prima con tocchi delicati e poi con una vera e propria esplosione elettrica, seguita poi da un pesante loop elettronico ripetuto e da arrangiamenti orchestrali conclusivi. È probabilmente il brano su cui la band deve riflettere e da usare come cavia per il futuro, è una perfetta coesistenza (seppur non in contemporanea) fra due stili piuttosto opposti e ciò nonostante l’evoluzione del brano suona perfettamente naturale!

Sono solo 29 minuti e mezzo ma bastano ai Camelias Garden per confermarsi band fresca e dalla grande vitalità, nonché promessa per il futuro. Spero presto di poter ascoltare un vero e proprio nuovo album ma al momento la band ha gettato ancora una volta le basi per un ottimo lavoro futuro.

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