Un giorno, il signor Holger Czukay, giovane professore di musica e esimio avanguardista, entrò senza preavviso nel regno del pop esoterico grazie a un suo studente, Michael Karoli, il quale gli fece ascoltare di soppiatto “I’m the Walrus”, il bislacco capolavoro dei Beatles.

Abbacinato da quel buffo teatrino psichedelico, Czukay, per un lungo attimo incantato, divenne Semolina Pilchard, lo strano personaggio che in quella canzone si ritrova in cima alla torre Eiffel,

E lassù, lassù su quella torre più immaginaria che reale, Semolina Czukay fu avviluppato da un folle roteare di suoni acidi che lo portò a vedere davanti a sé una specie di vortice...e, in mezzo a quel vortice, brillava (oh si!!!) brillava la spontanea scienza dell’attimo.

Ecco, magari vi sembrerà strano che ad averlo portato lassù (lassù dove tutte le cose importanti accadono) sia stata la canzoncina di un gruppo pop. Eppure è andata proprio così e sarebbe pure storia, se non vi dispiace. E che storia, visto che la fonte è l'immaginifico "Krautrocksampler" del mad professor Julian Cope.

In ogni caso, Czukay mise al corrente della scoperta il vecchio compagno di studi Irmin Schmitd, esimio avanguardista pure lui. E una notte fatale i due si ritrovarono insieme al giovane studente per un corso accelerato di musiche altre.

Solo che questa volta non erano i Beatles l’oggetto di studio, ma gente più ostica e oscura. Fate conto che, dalla tarda serata fino al mattino, i tre ascoltarono in sequenza Velvet Underground, Zappa, Hendrix e chissà quanti altri.

Ecco, pensate se anche a voi dovesse accadere una cosa del genere, pensate, intendo, di essere completamente ignari e di scoprire in una sola notte tutti i bei nomi e i bei suoni che vi ho detto.

Beh, immagino che pure voi ci perdereste un pochettino il senno. Con la differenza rispetto a Holger e Irmin, che voi siete dei minchioni qualsiasi e loro invece erano delle teste d’uovo use, perlopiù, alla frequentazione di lande gassose e iperuraniche.

Oh si, Holger e Irmin erano davvero delle teste d’uovo (erano stati allevi di Stokahausen, per dire) ma erano delle teste d’uovo con i controcazzi e quelle lande gassose e iperuraniche le abbandonarono all’istante. Nacque così l’idea di fare un gruppo rock, l’avanguardia, per il momento, poteva gentilmente accomodarsi in sala d’attesa.

Dopo un pochino arrivò Jaki Leibezeit, batterista free jazz, pure lui fresco di illuminazione. Che un tale, durante un concerto in Spagna, gli aveva detto una cosa tipo: “ma che cazzo di merda è sta roba che stai suonando, devi suonare di meno, devi suonare monotono”.

Ecco, Jaki poteva prenderla come una fregnaccia qualsiasi, invece no...diede a quel presunto imbecille il rango di esteta di passaggio e mutò il suo stile. E fu così che nacque la favolosa macchina ritmica dei Can, ovvero l’andamento metronomico, chirurgico e tribale che avrebbe influenzato tanta musica a venire.

Mancava solo il cantante. E quello che arrivò, Malcom Mooney, non era un cantante, era uno sciamano. E anche uno scultore e un poeta.

Personaggio un po’ folle e sopra le righe, unico americano di colore in un gruppo di bianchi, Mooney era una sorta di bluesman istintivo, tutto emotività e passione. Ed era anche un favoloso io narrante che gli altri seguivano rapiti.

La sua era una voce che trasformava la mancanza in un corpo a corpo con il cielo, o almeno dava come poche altre l’impressione di farlo,

Oltre a questa favolosa attitudine, portò al gruppo una nuova ragione sociale, Can, una parolina apriscatole che in turco significa vita e anima e in giapponese sentimento ed emozione, tutti significati, a ben vedere, che rimandano in qualche modo alla potenza espressiva della sua voce.

Ecco, adesso, per farvi una idea di “Delay”avete quasi tutti gli elementi: l’entusiasmo di strani novizi ultratrentenni per una musica che ai loro occhi coglieva l’attimo come nessun altra; un cantante sciamano che coagulava e distribuiva agli altri una folle energia creativa; una paradossale (per i tempi) idea ritmica di monotonia.

Vi manca solo, per capire del tutto, qualche spruzzatina di funk deviato e qualche nome di riferimento tipo Captain Beefheart e i Fall dieci anni prima dei Fall. Che questi sono i Can cazzuti.

Ma, meglio i Can cazzuti (questi e quelli del disco successivo “Monster Movie) o quelli fighi da “Tago mago” in poi?

Meglio l’ululato o il miagolio? La piadina con la salsiccia o il salmone? La passione urlante di un disco come questo o gli esercizi di matematica sonora di un album come “Future days”? La pesantezza del rock estremo o la volatilità di quegli elementi gassosi e iperuranici di cui abbiamo già parlato?

In fondo non c’è problema, che, dove prendi, con i Can prendi sempre bene.

Pistola alla tempia però io mi tengo brani come “19th century man” dove un groove quasi alla James Brown incontra, in ordine di apparizione, psichedelia e garage rock. E una iper ballad tesa e spiritata come “The thief’ e l’ossessività brutale di “Butterfly o quel mood quasi alla “Tago mago” di “Little star of Bethlehm”che qui, lungi da essere ancora una cosa figa, lotta per uscire dal fango.

“Delay” è il grande disco perduto dei Can. Rifiutato da tutti, fu pubblicato solo negli anni ottanta. Non ha la grandezza dei successivo “Monster movie”, ma poco ci manca. Procuratevelo e, come dice Julian Cope, perdeteci la testa.

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