I Can dell'era del Ferro, quattordici anni dopo.

La storia dei Can è ormai abbastanza risaputa: album com "Tago Mago", "Ege Bamyase" o "Future Days" sono ormai conosciuti non solo dai seguaci del genere, ma sono entrati negli alti ranghi del rock, essendo capolavori sui generis. Quelli erano i Can di maggior successo, quelli dai 70' in poi, da Damo Suzuki, tanto per intenderci, dove avevano affinato ognuno la propria tecnica, diventando un vero e proprio supergruppo rock, forse il migliore tedesco in quel periodo al pari dei Faust.

Ma i Can hanno origini ben più profonde, e soprattutto sporche.

Infatti prima che Malcom Mooney (prima voce del gruppo) impazzisse e lasciasse posto a Damo, quello sano di mente (?), i Can registrarono due album: il fantastico "Monster Movie" e il fantasioso "Soundtracks". E poi c'è questo "Delay 1968". Raccolta dei primi brani incisi dal gruppo, uscita postuma (1982) e per anni maltrattata e considerata soltanto una raccolta di pezzi di Can-non-ancora-Can, ingiustamente perchè quest'album è incredibilmente grezzo e sporco, di una genuinità e pazzia degna dei migliori Velvet Underground (maggiori fonte d'ispirazione), Zappa o Beefhearh.
Quest' album è addirittura più grezzo e animale di "Monster Movie". Se dovessi dargli un difetto, bè questo sarebbe la durata, che è solo di 36 minuti. Ma gli album come ben sappiamo non si giudicano dalla durata, ma dalla qualità e dalla sua innovazione: e allora quest'album è veramente molto di più di quanto sembra o vi hanno riferito.

Perchè Malcom Mooney è un ottima voce, pazza almeno quanto quella di Damo, instabile come se poggiasse su cavi di alta tensione, si lascia ad acuti improbabili per poi ritornare serio. E Liebezeit, Karoli, Czukay e Schmidt lo assecondano, nel suo perdersi volontariamente di testa ogni volta, con la tecnica che magari sarà pure inferiore a quella dei Can dell' età d'oro, ma con un effetto di rock nero, molto grunge, pre punk, figli della migliore scuola hard di Detroit e allo stesso tempo padri.
Quello che accade tra i solchi di questo oggetto è pure follia applicata al più lercio rock che c'era fino ad allora.

Si passa dai trip sconsigliati alle persone claustrofobiche di "Butterfly" e "19th Century Man" in cui cambi di ritmi contrastano la voce monocorde di eterna sofferenza di Mooney, il tutto accompagnato da riff di Karoli magnifici ed aggressivi, come raramente farà in seguito, a "Pnoom", brevissima parentesi fata di trombette impazzite che collega le due traccia sopra citate con la colla della pazzia. In "Thief" Mooney si lancia solitario insieme alla chitarra angosciante di Karoli in un vuoto esistenziale che colpisce l'ascoltatore nei suoi cinque minuti. La coerenza sonora viene confermata dalla penultima "Uphill" che sembra un reprise della traccia iniziale, ma più movimentata e funk. Chiude una magnifica "Little Star Of Bethlehem", forse il brano meglio confezionato e riuscito dell'intero album, in cui si rimane di stucco ascolando come stiano magnificamente insieme il testo cantato e gli strumenti che man mano crescono, ma senza mai esplodere veramente. Colui che realmente esploderà sarà l'eterno emarginato Malcom, che sarà costretto ad uscire dal gruppo e forse portandosi con sè quella voglia d'impulsività che man mano verrà poi a mancare alla band, fino a lavori studiati e complessi, ma non per questo inferiori, come "Future Days".

Il consiglio è quello di procurarsi questa tripletta iniziale, altrettanto essenziale quanto quella postuma (citata all'inizio). Ma non siate tentati dal metterle a confronto, ne ricavereste poco o nulla di buono. Erano due "epoche" diverse, se pure in periodi molto vicini tra loro, con diverse idee musicali e diverse line-up. Quindi limitatevi, si fa per dire, a godervi questo "Delay" e ad impazzire insieme a Malcom, mentre urla dying butterfly, began to fly.

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