Premessa non richiesta: per questa mia cinquantesima recensione su questo sito (piccolo e personale traguardo) ho deciso di fare qualcosa di completamente diverso da quello che è il mio solito e di contravvenire ad alcune di quelle regole che mi ero dato entrando in questo bar.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Bisogna leggerlo questo libro.

Perché certi libri vanno letti e non rimasticati a memoria (corta), riassemblati su frammenti di letture, scolastiche e non, o di critiche orecchiate da altri orecchianti e da riassuntini ingollati di corsa. Certi libri vanno presi tra le mani e soppesati con cura ché, altrimenti, si rischia di reiterare fesserie e ribadire sciocchezze.

Come fa, ad esempio, Angelo Guglielmi (che pure è intellettuale accorto) in una vecchia intervista, nella quale affermava di dovere a Gadda il suo amore per la cultura popolare; commettendo così l’errore, per me imperdonabile, di affibbiare una patente di “popolare” all’opera gaddiana.

Ma perché?

Cosa c’è di popolare ne “La Madonna dei filosofi” o ne “La meccanica” o in un “Eros e Priapo” (per non dire de “La cognizione del dolore” e di tutto il resto)? E neppure il suo lavoro alla RAI, a ben vedere, potrebbe essere definito tale.

Magari Guglielmi, con infelice sineddoche, alludeva al solo “Pasticciaccio brutto de via Merulana” quale epìtome - a suo vedere - in sé compiutamente esaustiva dell’opera gaddiana che, in quanto romanzo “giallo” e - per sovraprezzo - scritto in dialetto romanesco (e non solo), parrebbe avere tutti i requisiti per vedersi ascritto, a pieno titolo, alla categoria del “romanzo popolare”.

Ma così l’errore da imperdonabile diventa marchiano, madornale, sesquipedale. E non perché ci sia qualcosa di male nei romanzi popolari, sia chiaro! Ma perché il “pasticciaccio” è ben altro e rubricarlo come “un giallo scritto in romanesco” è, semplicemente, fuorviante.

C’è un delitto - è vero – e, apparentemente, lo snodarsi di un’indagine; ma poi il romanzo si inerpica per ben altre strade e si annoda su sé stesso dimenticandosi di sviluppi e premesse, motivazioni, deduzioni e, persino, di trovare un colpevole. Vittime e carnefici sono tutti uguali, tutti aggrovigliati in quella matassa inestricabile ed insensata che è il destino. Tutte mosche prigioniere nella tela informe di un ragno ottuso. E l’occhio del “gran lombardo” è impietoso, vorrebbe avere la fredda distanza del filosofo ma, troppo spesso, a dominarlo è una sorta di sordo rancore.

E neppure il romanesco del milanese Gadda ha nulla di “popolare”: è un romanesco letterario (il romanesco di Belli), artificioso, volutamente contraffatto, mischiato a suoni e “parlate” di ogni tipo: dal molisano di Don Ciccio Ingravallo alle voci degli altri comprimari e dello stesso Gadda (che non manca, neanche qui, di assestare i suoi soliti schiaffoni alla Lingua Italiana), fino ad arrivare ai rumori della strada e, persino – in una celeberrima pagina – allo starnazzare di alcune galline.

E’ quel peculiare “babelismo” gaddiano, croce e delizia di chi, incautamente, si accosta alla sua pagina. Sono quelle “diverse lingue, orribili favelle” che popolano questo Inferno, ben più reale e pauroso di quello Dantesco.

A ben vedere, capita al nostro autore, un po’ quello che, nel campo musicale, accade con Captain Beefheart: se ne parla molto di più di quanto lo si ascolti, scambiandolo, troppo spesso, per un musicista pop, laddove il suo approccio intellettualmente iconoclasta a certe musiche “popolari” (in primis blues e rock, ma non solo) è ben altro.

E così non lo si legge (come non si ascolta il Capitano Cuordibue). E, invece, bisognerebbe leggerlo questo libro.

Specialmente se, come Germi, se ne vuole trarre la sceneggiatura per un film. Ma il grande regista genovese si fece quasi un vanto di non averlo mai voluto leggere, quel libro. Memorabili le scintille tra lui e Gadda che giocarono a rimpiattino per tutto il tempo delle riprese, inseguendosi e scansandosi. In realtà timorosi ed, in fondo, rispettosi (sebbene a Germi scappasse un “intellettuale cretino” rivolto al narratore lombardo) l’uno dell’altro.

Così a venirne fuori fu un film giallo (“un maledetto imbroglio”) solido e sanguigno, tanto infedele quanto sottilmente “assonante” col romanzo gaddiano. Un “giallo” classico con tutti i suoi elementi al posto giusto.

Con un colpevole: il più logico e – per questo – il meno atteso, in fin dei conti vittima anche lui e non meno colpevole dei tanti “innocenti” che si affastellano sul proscenio della vicenda. Vicenda che può, in questo modo, ammantarsi anche di critica sociale ed antiborghese.

Con un investigatore: don Ciccio Ingravallo, sorta di Maigret con la prestanza ed il cinico individualismo di un Marlowe e la faccia scavata nella pietra dello stesso Germi. Lontanissimo dall’altro Ingravallo “di statura media, piuttosto rotondo della persona” e con “un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata ed un fare un po’ tonto, come di persona che combatte con una laboriosa digestione”, misto di sofistica sottigliezza, scaltrezza levantina e vitalismo meridionale e con una certa “praticaccia” delle cose della vita; uomo del Mediterraneo con annesse “macchioline d’olio sul bavero” e “bernoccoli metafisici”, disegnato da Gadda.

Con una vittima: la signora Balducci, la “povera” Liliana. Agnello sacrificale non priva, però, dei suoi lati oscuri. Nel romanzo è quasi una maschera da Tragedia classica: la “Madre” accogliente ed oppressiva, morbida e fagocitante, personaggio ricorrente in molta parte dell’opera del Nostro. Nel film è una bellissima Eleonora Rossi Drago che, in certi momenti, mette persino in ombra un’abbagliante Claudia Cardinale.

Gran film; ma altra cosa il libro.

Libro che andrebbe letto (te l’ho già detto?). Letto, però, non fagocitato, azzannato, divorato (che tempi quelli in cui “divorare un libro” è diventato un complimento, un attestato di valore, un apprezzamento, quasi che un libro possa essere ingollato a mo’ di schifoso paninaccio di McDonald!).

Io per primo ho imparato che non lo si può leggere come un “Viaggio al termine della notte”, sballottato da un treno in qualche parte d’Europa, con lo sguardo torvo ed accigliato a darsi un tono; oppure come un “Le città invisibili”, declamato un tot a sera, raggomitolato nel letto con Tania (o una delle Tanie), un occhio alla pagina ed una mano a ravanarle le tette.

No, il “Pasticciaccio” richiede il tuo tempo e la tua attenzione (quello stesso tuo tempo di cui io sto abusando ingiustificatamente e di cui ti chiedo vènia, caro Lettore) e pretende il giusto spazio. Bisogna imparare a leggerlo - come voleva Nietzsche per il suo “Zarathustra” – “ruminando”!

Lasciarselo scrocchiare in bocca, schioccando tra lingua e palato un “mascelluto” o un “tempo non revolutorio ; ritornare sulla pagina, lasciarselo tintinnare tra le orecchie; mandare a memoria piccoli motti come: “Chi si riconosce genio, e faro alle genti, non sospetta d'essere moccolo male moribondo, o quadrupede ciuco“; riempirsi gli occhi di quell’eloquio scoppiettante come una fila di mortaretti. Accanirsi a scioglier quei nodi inestricabili, quello “gliommero” beffardo, quel gomitolo di significati che non vogliono, né possono, accordarsi in un qualsivoglia senso compiuto.

Bisogna leggerlo questo libro. Ma questo libro non è per tutti.

Carico i commenti... con calma